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Ci vorrebbe al Csm una pratica a tutela del giudice Tommaso Perna. Non solo per difendere lui dagli assalti del partito “amici dei pm”, ma anche per ristabilire le regole dello Stato di diritto. Prima di tutto: quale è il compito del giudice? Decidere se l’ipotesi accusatoria che gli presenta il pubblico ministero abbia o no la forza di prova.
Per come vanno le cose di giustizia in Italia da almeno cinquant’anni, il giudice è stimato solo se dice che il pm ha sempre ragione. Se succede, come nel caso del gip milanese Tommaso Perna, che non ha accolto la richiesta di 143 arresti chiesti dalla procura “antimafia”, ecco la pioggia di critiche che gli piovono da ogni parte. Prima di tutto dagli stessi procuratori che, nell’immediato ricorso (ma solo per 79 casi, gli altri non erano dunque fondati?) al Tribunale del riesame, accusano il giudice di non capire niente in tema di mafia. Che non è più quella che spara, dicono, ed è vero, ma quella che viene al nord a cercare di fare affari, magari vincere anche qualche appalto con l’appoggio di esponenti politici.
Ma siamo sicuri che si possa chiamare ancora “mafia” questo insieme di comitati di affari? E abbiamo la certezza che ogni soggetto, magari solo perché porta un certo cognome o è parente di un boss, come nel caso di un cugino di Matteo Messina Denaro, per ciò stesso possa dirsi ”mafioso”? Sono alcuni degli interrogativi posti dal giudice Perna. Due modi di vedere, non tanto il fenomeno mafioso, compito che non appartiene né ai pm né ai giudici, ma la sostanza stessa del giudicare. Perché la legge dice di portare a processo solo persone nei cui confronti siano stati portati sufficienti indizi per poter arrivare a condanne “oltre ogni ragionevole dubbio”. Se, come troppo spesso succede, soprattutto nei processi sulla criminalità organizzata, il rappresentante dell’accusa si lascia convincere a facili suggestioni, magari di tipo sociologico o sociale, confondendole con concreti indizi, si rischia di far perdere tempo e denaro all’amministrazione della giustizia. E anche, soprattutto, di prendere lucciole per lanterne e danneggiare cittadini innocenti.
Nei processi al sud succede spesso, ma si nota di meno. Ma osare mettere in discussione la credibilità della Dda milanese, quella che fu di Ilda Boccassini e oggi è diretta da Alessandra Dolci, pare quasi una bestemmia. Così si mobilita immediatamente lo squadrone dei giornali amici di quelle procure (o caserme) che li nutrono di veline e fanno il tiro al bersaglio sul giudice che ha svolto il proprio lavoro di giudice. Cioè ha deciso con autonomia e indipendenza. Nel loro nome dovrebbe essere la Anm, il sindacato delle toghe, la prima a difendere l’operato del giudice Perna.
Il Csm apra dunque una bella pratica a tutela, per difendere il giudice Tommaso Perna da “comportamenti lesivi del prestigio e dell’indipendente esercizio della giurisdizione tali da determinare un turbamento al regolare svolgimento o alla credibilità della funzione giudiziaria”. La apra subito il Comitato di Presidenza del Csm di Fabio Pinelli e la trasmetta, come dice la legge, alla Prima Commissione. Proprio quella che due giorni fa ha deciso, con un voto a maggioranza, di difendere la giudice Iolanda Apostolico, che aveva bloccato l’ingresso di otto migranti nel Cpr di Pozzallo, evitando di applicare un decreto del governo.
Se nei suoi confronti le critiche per i suoi comportamenti e i sospetti di “parzialità” di giudizio a causa della sua partecipazione a manifestazioni antigovernative sono state considerate lesive, a maggior ragione dovrebbero esser considerate tali quelle che hanno travolto il giudice Perna. E’ stato letteralmente preso d’assalto. Una pratica a tutela è il minimo, se davvero si vuole difendere l’autonomia del giudice. Se il Csm non farà nulla, sarà la dimostrazione del fatto che la propria indipendenza viene considerata tale solo se dall’altra parte, quella che attenterebbe all’autonomia delle decisioni del giudice, c’è un esponente politico. Le pratiche a tutela del passato avevano come “controparte” Bettino Craxi (processo Tobagi) o Silvio Berlusconi (diverse volte). Oggi, nel caso della giudice Apostolico, Matteo Salvini. Ma se invece a tentare di condizionare la serenità di un giudice fossero i rappresentanti dell’accusa piuttosto che non disinteressati giornali e giornalisti?