PHOTO
«L’Italia si è girata dall’altra parte e ha fatto esattamente ciò che dice di non voler fare: il gioco degli scafisti». A parlare è Francesco Verri, legale assieme ai colleghi Vincenzo Cardone, Mitja Gialuz e Luigi Li Gotti dei familiari delle vittime del tragico sbarco di Cutro, che ad oggi conta 94 vittime. Un elemento che emergerebbe anche dalle testimonianze raccolte durante l’incidente probatorio in corso nel procedimento a carico dei presunti scafisti. «Ora qualcuno deve spiegare perché le cose sono andate così», dice al Dubbio.
Avvocato, le testimonianze dei superstiti nel corso dell’incidente probatorio forniscono qualche elemento sulla catena dei soccorsi?
I superstiti hanno raccontato questo drammatico viaggio dall’inizio alla fine, facendo emergere anche le circostanze più importanti circa le ultime fasi. Quel che è certo è che in mare questa barca non ha intercettato nessuno, nessuno era ad attenderla nelle acque italiane. Eppure, oltre alla Guardia di Finanza, che ha tentato di uscire ed è rientrata dopo l’allarme lanciato da Frontex, in mare, quella notte, c’erano imbarcazioni di supporto alle piattaforme dell’Eni che sono nel golfo di Crotone. Sarebbe bastato allertarle, nel momento in cui la Guardia di Finanza non è riuscita ad intervenire per via del maltempo. Ma sono emerse anche altre circostanze molto significative, la più importante delle quali è il tempo che alcuni sopravvissuti hanno trascorso in acqua.
Come aiuta a capire la dinamica dei fatti?
Due di loro hanno raccontato di essere stati tre ore in acqua, parole che combaciano con i dati ufficiali a disposizione. Sappiamo che il naufragio è avvenuto alle 4 di domenica 26 febbraio e sappiamo che la Guardia Costiera ha raccolto questi superstiti in mare, attraverso un’imbarcazione, alle 6.50. Questo conferma il racconto dei sopravvissuti anche sotto il profilo dei tempi: sono rimasti in acqua davvero 2 ore e 50 minuti prima di essere salvati. Salvati per modo di dire: due persone sono state tratte in salvo, mentre una terza, un bambino di 12 anni, è morta di freddo davanti agli occhi dello zio e del fratellino. Quindi l’intempestività dei soccorsi ha fatto sì che morissero più persone di quante ne sarebbero morte altrimenti.
Come sappiamo che i soccorsi via mare sono arrivati solo a quell’ora?
È scritto nero su bianco nella relazione della Guardia Costiera. Un dato che va incrociato con un’altra circostanza: le pattuglie via terra della Guardia Costiera arrivano in spiaggia alle 5.35, un’ora e 35 minuti dopo il naufragio. I primi ad arrivare sono i carabinieri, alle 4.37.
Come sono spiegabili questi ritardi?
Per il momento non c’è una spiegazione. Queste risposte immagino saranno fornite dalle indagini sulla catena dei soccorsi. L’incidente probatorio ha consentito però di cristallizzare queste notizie, che combaciano perfettamente con quelle fornite dalle relazioni di servizio di Finanza, Guardia Costiera e Carabinieri: nessuno ha esagerato, dunque, nel riferire i propri ricordi di quei momenti. L’incidente probatorio ha permesso di ricostruire tutto questo e noi, che abbiamo raccolto queste informazioni davanti al gip del Tribunale dei minori, abbiamo messo i verbali a disposizione della procura di Crotone, che ancora non aveva.
Quindi il dubbio sulla responsabilità dei soccorsi rimane.
Sì. Ho letto ricostruzioni fantasiose che smentiscono una responsabilità, ma credo che quei giornalisti abbiano partecipato ad un altro incidente probatorio e letto altre carte rispetto a quelle che ho letto io. Le risposte sono queste. Se l’intervento della Guardia Costiera - che arriva alle 6.50 sul luogo del naufragio da un porto che si trova a poche miglia, raggiungibile, con mezzi adeguati, in 10 minuti - è tempestivo ne prendo atto. Ma non capisco come quelle testimonianze possano “scagionare” qualcuno.
Poi c’è la fase precedente: l’allarme di Frontex, i soccorsi mai partiti e l’operazione di polizia mai conclusa.
Il confronto tra i fatti e le norme ci permette di concludere che l’Italia si è girata dall’altra parte. Se è vero che gli scafisti avevano l’obiettivo di far sbarcare i migranti e tornare indietro, se è vero che a loro interessava esclusivamente il traffico, allora abbiamo fatto il loro gioco. Abbiamo permesso loro di farli arrivare e se la barca non fosse affondata sarebbero tornati indietro, visto che non c’era nessuno ad aspettarli, ricominciando da capo. Si è parlato di un’operazione di law enforcement, ma non è stata fatta nemmeno quella. Perché l’operazione di polizia si fa nella misura in cui si abborda l’imbarcazione, si registrano i nomi degli occupanti, si arrestano e si tengono sotto sorveglianza fino a quando la nave non è in porto, dove poi si fa l’identificazione. Ma tutto ciò non è avvenuto. Né la polizia ha aspettato gli scafisti sulla spiaggia dopo aver calcolato la traiettoria: i carabinieri sono arrivati a naufragio avvenuto. In realtà l’Italia ha fatto il loro gioco. È come in guardie e ladri, solo che gli scafisti hanno fatto i ladri, noi non abbiamo fatto le guardie. È ovvio che il ladro voglia scappare, completare il suo business e mettere in salvo la barca, che costa, ha un valore e permette di fare un altro viaggio e guadagnare un altro milione di euro. Ma nessuno ha evitato tutto questo.
Si parla di video promozionali per incoraggiare altri migranti a partire. Questo presunto marketing dei viaggi c’è stato?
Il marketing è la pubblicizzazione di un’offerta e la pubblicità funziona se c’è una domanda. E lì c’è una domanda, quella di milioni di persone che, vivendo in posti invivibili, sono costrette a scappare. C’è poco da girarci intorno. Il marketing sarà anche macabro, ma queste persone danno ad altre la possibilità di salvarsi. Perché gli scafisti sono, fuori dalle formule, persone che conducono delle barche che portano questa gente in salvo. È chiaro, non lo fanno con scopi umanitari, non c’è dubbio, ma il loro traffico è possibile perché lo Stato non assicura a questa gente una possibilità lecita, regolare, di arrivare in Italia. Se ci fossero i corridoi umanitari di cui si parla non ce ne sarebbe bisogno. Invece il marketing, l’offerta del “servizio di trasporto” verso l’Italia, incrocia una domanda fatta di disperazione.