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Diego Armando Maradona, l'uomo che ha dato a Napoli il sollievo dall'incubo della dannazione
Mio padre non capiva di calcio. Proprio non ci capiva. E quello che sto per dire lo dimostra, ma aveva la sensibilità di capire le passioni degli altri. Così, visto che era un giornalista, fu folgorato dalle Gazzette dello Sport che io undicenne comprai tutti i santi giorni dallo scoccare del Mondiale di Spagna 82. «Un ragazzino di undici anni che ogni giorno esce per andare in edicola a prendere un quotidiano non è una cosa che ho visto spesso». E allora a settembre cominciò a portarmi allo stadio. Due anni di sofferenze, con Diaz e Dirceu. Poi una sera ero sulla sedia a dondolo di legno, era un mese che avevo il cuore in pena. A un certo punto su Telestudio 50 interruppero le trasmissioni. Solo una scritta enorme: Maradona è del Napoli. Caddi di lato con tutta la sedia, con lentezza, come il personaggio di “Continuavano a chiamarlo Trinità” preso a cazzotti in testa da Bud Spencer. Era la sera del 30 giugno 1984: passarono dieci secondi — giuro, dieci secondi — e sentii i clacson delle macchine dalla strada. Passarono altri 5 giorni e mio padre mi portò allo stadio. C’era un’amichevole del Napoli allievi, ma soprattutto doveva sbucare dal ventre del San Paolo, per la prima volta, lui. Lo vedemmo: «Buonasera napolitani, sono felice di essere con voi». Tre palleggi e poi una corsa per la pista d’aletica. Passò sotto di noi, dov’ero con mio padre, che urlò: «Ma nun ’o vir ca ten ’a panz???». Non capiva proprio, di calcio, papà, ma continuò a portami allo stadio. E poi per sette anni l’abbonamento in curva B fu il mio diritto di esistere. Ed è difficile spiegare cosa sia stato per un ragazzino nel pieno dell’adolescenza vivere in curva B quei sette anni con gli amici più cari — perché poi papà si arrese all’evidenza e si limitò a incoraggiarmi da casa — ed è difficile spiegare cosa sia Napoli per noi che l’abbiamo vissuta nel sogno. E che ci ricordiamo di quel frastuono alle 17 e 47 del 10 maggio 1987, novantamila trombe e la nostra bandiera stracciata, c’era scritto “I ragazzi della Partenope nuoto salutano gli azzurri campioni d’Italia”, e l’avevamo scritta prima delle 17 e 47. Non si può capire cos’è stato, perché noi neppure immaginavamo che Napoli potesse mai vincere lo scudetto, era un’astrazione della mente ma non poteva essere vero. E invece, grazie a lui, successe. Spesso mio cugino Francesco, che è tra i fratelli dal sangue azzurro condannati al sogno da quei sette anni vissuti in Diego, dice proprio questo: «Ma ti rendi conto di cosa significa essere stati nel fiore dell’adolescenza, per noi tifosi del Napoli, quando Diego ci ha fatto vincere lo scudetto?». Faccio fatica non a rendermene conto, ma a descriverlo. E c’è una cosa che va oltre: quando mia figlia si è avvicinata al pc e ha visto quella notifica del Napolista con su scritto “Morto Maradona” e ha detto «noo, papà ma è vero?», io sono rimasto paralizzato. Perché non ha senso. Maradona non può essere morto. Non è morto. Non può essere, credetemi, posso giurare anche questo. Se come scrive De Giovanni in “La presa di Torino” «molti di noi se non tutti, incluso il sottoscritto, hanno avuto in quell’Uomo la persona al mondo che ha erogato la maggior felicità, la più grande passione, le più calde lacrime di gioia», se è così, come può non esistere, visto che noi siamo ancora vivi? Vedete, Napoli si è sempre sentita dannata. Non credete al resto, lasciate perdere il vittimismo professionale o l’ospitalità, la vocazione alla poesia del canto o all’esibizione teatrale. No, Napoli ha solo una dimensione: si sente dannata, convinta di non valere nulla, di essere zero, destinata alla disperazione. È così. Vedete allora cosa è stato Diego per noi? Capite perché il Napoli è così importante per noi? Perché la gioia che ci ha dato, che ci ha dato Diego, è il sollievo della verità contro quella dannazione. La gioia di quei sette anni ci aprono gli occhi per svelare che non siamo affatto destinati alla dannazione. Ma Napoli ha sempre vissuto l’angoscia del nulla e del dolore insieme con una assoluta e totale religiosità: ecco perché Maradona è Dio. Perché se per noi l’unico riscatto è sempre stato possibile in una dimensione e con un sollievo ultraterreni, quel signore che ci ha liberato per sette anni dall’idea nera della dannazione dev’essere per forza soprannaturale. Il calcio e le finte e i dribbling e il pallonetto da dentro sollevato per magia dopo che Pecci gli passò la palla della punizione dentro l’area con la suola della scarpa e la barriera della Juve a tre metri e mezzo scarsi, noi che piangemmo insieme alla pioggia quel pomeriggio del 3 novembre 1985, sono solo contorni. La verità è quella liberazione, quella scoperta che non eravamo dannati. L’abbiamo avuta grazie a lui. A volte penso che Napoli sia precipitata, dopo il 1991, dopo il suo addio, in una voragine di perdite e fallimenti, dalle guerre di camorra alle montagne di rifiuti e all’emorragia di intelligenze e ricchezza, anche perché finito Maradona non potevamo vivere niente di più. Abbiamo smesso di sognare e di credere nel futuro. Però visto che noi siamo noi ma lui è morto in una infame sera di novembre, e visto che ci sono le figlie Dalma e Giannina e che c’è Diego Armando Maradona junior, e tutti gli altri familiari che lo piangono assai più di quanto possa farlo un cinquantenne malato d’azzurro, come si fa a non dire che quest’uomo, a fronte di tanta gioia regalata agli altri, ha avuto uno schifo di vita? Come ci si può non interrogare sul destino di un signore che, entrato nella spirale della dipendenza da quella polvere maledetta, non ha più avuto una vera resurrezione? Come si può restare indifferenti a una morte a sessant’anni appena compiuti e alla sua ingiustizia? Che senso ha che sia andata così, che diversamente da tanti altri ex calciatori ben vestiti, accolti come dei luminari nei senzagiacca della domenica sera, lui non ha più avuto una vita, ma solo sofferenze, e tentativi malandati di riscatto, e cadute, ricoveri, operazioni salvavita fino all’ultima finita male? Vi ricordate di un altro che abbia avuto un destino così infame? Sì, forse nel calcio George Best, che per fatalità atroce è morto pure lui il 25 novembre, quindici anni fa. Molti ricordano che il 25 novembre, di quattro anni fa, è morto pure Fidel Castro, di cui Diego era grande amico. I numeri, diamo i numeri, daremo i numeri a lungo, noi napoletani. Ieri sera hanno accesso i riflettori del San Paolo come quella notte che ribaltò il 2-0 della Juve nel quarto di finale d’andata della Coppa Uefa. Poche settimane dopo, il 17 maggio del 1989, Diego sarebbe rimasto in ginocchio sul prato di Stoccarda ad accarezzare la testa di Ciro che non aveva più smesso di piangere da quando aveva messo dentro la palla del 2-1. Diego disse: «Ciruzzo è napoletano, lui se lo merita più di tutti, noi abbiamo fatto qualcosa ma lui ha fatto gol, ha fatto una grande partita, lui se lo merita più di tutti». Ciro Ferrara piangeva e lui invece di alzare la prima Coppa Uefa nella storia del Napoli doveva stare inginocchiato sul prato al centro del campo con cinquanta fotografi attorno per consolare l’amico che non la smetteva più di piangere. Diego ha sofferto tanto per il tormento di quella paternità malvissuta, per quel primo figlio maschio, suo e di Cristiana Sinagra, che non riconobbe finché il test del Dna di un tribunale non lo fece al posto suo. Mi illusi che l’abbraccio su un campo da golf sbocciato tra figlio e padre nel 2003 avrebbe rimarginato la ferita. E lo avrebbe fatto rinascere. Invece ha continuato a soffrire. Ieri pomeriggio il papà di mia moglie Annalisa non ha avuto il coraggio di chiamarmi. Ha solo detto a lei, a mia moglie, «di’ a Errico che tanto fra tre giorni risorge». Ciao Diego.