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La scomparsa dell’allora capo della procura di Caltanissetta Giovanni Tinebra e di Arnaldo La Barbera, le dichiarazioni contraddittorie dello pseudo pentito Vincenzo Scarantino che perdurano nel corso degli anni e il silenzio – ineccepibile in punto di diritto – del quale si sono avvalsi gli imputati di reato connesso i poliziotti Mario Bo’, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, fa «ritenere che non si sia giunti alla concretizzazione di alcuna notizia di reato nei confronti degli indagati». Così il procuratore di Messina Maurizio de Lucia ha chiesto l’archiviazione nei confronti dei due ex pm di Caltanissetta, Carmelo Petralia e Annamaria Palma, i quali nei mesi successivi alla strage di Via D’Amelio, dove perse la vita Paolo Borsellino credettero al falso pentito Vincenzo Scarantino.
In 164 pagine il pool guidato dal procuratore De Lucia ricostruisce l’inchiesta avviata dopo la scoperta dei nastri con le registrazioni delle telefonate che l’allora – considerato superpentito – Scarantino fece ai Pm che, coordinati dal capo procuratore Tinebra, seguivano le indagini del gruppo investigativo “Falcone/ Borsellino” guidati da Arnaldo La Barbera. Indagini che, anni dopo, si scoprirono, grazie alla collaborazione del vero pentito Gaspare Spatuzza, inquinate dalle false dichiarazioni di Scarantino indottrinato per allontanare la verità. Da chi sarebbe stato eterodiretto ancora bisogna accertarlo processualmente. Per la procura di Messina il depistaggio c’è stato ( così come sentenziato dal Borsellino Quater), ma non per opera dei magistrati Palma e Petralia.
Ma una riflessione, nelle conclusioni della richiesta di archiviazione, c’è stata. Le indagini, secondo la richiesta della corte di Assise di Caltanissetta che ha chiesto di valutare la condotta dei magistrati all’epoca in servizio, non hanno consentito di individuare alcuna condotta penalmente rilevante, posta in essere dai magistrati indagati o da altre figure appartenenti alla magistratura. «Indubbiamente – scrive la procura di Messina – senza la successiva collaborazione di Gaspare Spatuzza, di tale falsità non vi sarebbe stata alcuna certezza». Eppure, come vedremo più avanti, inizialmente qualche dubbio sulla sua attendibilità c’è comunque stato. «Tale dato – osserva il procuratore De Lucia – deve fa riflettere sulle possibili disfunzioni sotto il profilo dell’accertamento della verità, di vicende processuali incentrate prevalentemente su prove di natura dichiarativa provenienti da soggetti che collaborano con la giustizia, al punto da determinare che, in ben tre gradi di giudizio, non si riuscisse a svelare tale realtà».
Ma Spatuzza è stato subito ritenuto credibile a differenza di Scarantino? Per esempio, come riportato dalla richiesta di archiviazione, l’allora Pm Nino Di Matteo, qualche dubbio pare averlo manifestato. Nel capitolo relativo a Di Matteo, sentito in procura, è egli stesso a spiegare che nel 2008 si era occupato, per conto della Procura di Palermo, della collaborazione di Spatuzza. Nello specifico ha riferito che, pur avendolo ritenuto attendibile per quella parte di dichiarazioni che interessavano la Procura di Palermo, si era posto un problema di rilevanza di quelle dichiarazioni in quanto riguardanti episodi omicidiari che coinvolgevano soggetti – tra cui lo stesso Spatuzza – già giudicati con sentenze definitive. A pagina 83 della richiesta di archiviazione si aggiunge una nota. Si tratta della dichiarazione di Spatuzza dove riferisce di aver percepito un atteggiamento cauto da parte dei magistrati della procura di Palermo nei suoi confronti, anche in ragione del fatto che costoro, a suo dire, non adottavano alcun provvedimento di protezione a suo favore. Ovviamente si tratta di una sua personale percezione e quindi non oggettiva. Nella medesime nota si legge che era stata la Procura di Firenze a chiedere il programma di protezione nei suoi confronti; a quell’iniziativa si era accodata la Procura di Caltanissetta e, infine, quella di Palermo. «Infine – si legge sempre nella nota – lo Spatuzza ha escluso di aver mai ricevuto domande, anche in modo informale, dal dottor Di Matteo sulla strage di Via D’Amelio».
Secondo la procura di Messina, come si legge nella nota a pagina 84 della richiesta di archiviazione, la circostanza che la Procura di Palermo avesse inizialmente assunto «un atteggiamento cauto circa la rilevanza e l’attendibilità del contributo dichiarativo di Spatuzza» ha trovato conferma nel contenuto di un verbale di riunione di coordinamento “delle indagini sulle stragi siciliane del 1992 e del continente degli anni 1993 - 1994”, svoltasi presso la Dna il 22 Aprile del 2009. In quel verbale, tramesso a Messina il 25 marzo del 2019 a seguito di specifica richiesta della procura, sono riportati due interventi di Nino Di Matteo. Sul primo intervento, i magistrati di Messina, riferiscono: «Il dottor Di Matteo ha pure rilevato che non sempre Spatuzza, a suo giudizio, ha affermato il vero; ha aggiunto che, a suo parere, la collaborazione di Spatuzza non è di particolare rilevanza atteso che essa non consente di arrestare nessuno, né di sequestrare alcun bene, né di processare qualcuno. Ha affermato che, secondo lui, non sono particolarmente rilevanti neppure le dichiarazioni rese in ordine agli omicidi di padre Puglisi e del giovane Diego Alaimo». Il secondo intervento del Pm, sempre riferito alla medesima riunione, è così descritto: «Il dottor Di Matteo ha manifestato la sua contrarietà alla richiesta di piano provvisorio di protezione sia perché essa attribuirebbe alla dichiarazione di Spatuzza una connotazione di attendibilità che ancora non hanno, sia perché le dichiarazioni di Spatuzza, sebbene non ancora completamente riscontrate, potrebbero rimettere in discussione le ricostruzioni e le responsabilità delle stragi, oramai consacrate in sentenze irrevocabili, sia perché l’attribuzione, allo stato di una connotazione di attendibilità alle dichiarazioni di Spatuzza potrebbe indurre l’opinione pubblica a ritenere che la ricostruzione dei fatti e le responsabilità di essi, accertate con sentenze irrevocabili, siano state affidate alle dichiarazioni di falsi pentiti protetti dallo Stato, e potrebbe, per tale ultima ragione, gettare discredito sulle Istituzioni dello Stato, sul sistema di protezione dei collaboratori di giustizia e sugli stessi collaboratori di giustizia».