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Il grande successo di Zero Day, una delle migliori serie attualmente su piattaforma, è in parte dovuto all’elevato standard realizzativo assicurato da Netflix al progetto di Noah Oppenheimer e Michael Schmidt. Non sappiamo se potrà essere prodotta una seconda stagione, ma certo sarebbe interessante affrontare alcune domande lasciate aperte.
Durante le riprese la scrittura ha dovuto affrontare lo sciopero della Writers Guild of America, ma le sei puntate risultano fluide, moderne e in qualche modo segretamente intessute secondo i ventuno Arcani Maggiori. Pur non essendo la prima volta di Robert De Niro sul piccolo schermo, visto però in poche, episodiche incursioni, mai in precedenza il grande italoamericano aveva così investito su un ruolo televisivo così importante.
L’attore in Zero Day è anche produttore esecutivo associato, e dunque, più che negli ambiti tecnici, se ne avverte l’influenza artistica nei chiaroscuri narrativi, nella ricerca interpretativa dell’essenzialità emotiva, cui il cast risponde con grande efficacia. Zero Day risulta quindi modernissimo, nella dialettica tra princìpi del passato e incertezze future, di fronte a un attacco informatico epocale capace di portare reale terrore.
Nelle sei puntate della serie la tensione avvince dall’inizio, mostrando gli effetti fisici dell’attentato e creando una catena di enigmi dall’inizio dell’indagine sulla sua matrice. La regia e il montaggio disegnano con intelligenza personaggi di grande spessore, che svolgono il filo della narrazione della fragilità umana tra cemento e natura. Nel tentativo di rispondere a un 11 Settembre distopico, Angela Bassett, che interpreta l’energica Presidente USA Evelyn Mitchell, istituisce una Commissione speciale, che affronterà l’emergenza con poteri superiori a quelli di CIA, Congresso, FBI. E lo scenario non è estraneo a un filone da qualche tempo in voga a Hollywood: la paura nasce dall’interno, da nemici nuovi e invisibili, che vanno affrontati in modo estremo.
Nel buio sono tutti ugualmente pericolosi: eversori, patrioti a stelle e strisce, paramilitari, hackers, funzionari deviati. Bob De Niro, il Presidente anziano George Mullen, buttato nella tempesta politica perfetta, ci mette coraggio e etica, affrontando molteplici avversari, compresa tra cui sua figlia Alexandra, incaricata di vigilare sulla Commissione, che Lizzy Caplan trasforma in una donna spezzata vicina a una deriva definitiva. Ma consegnare poteri illimitati a un solo organismo espone a scenari scioccanti, imprevedibili, costringendo, secondo logiche di ruolo, ognuno ad abiurare a gran parte dei propri princìpi.
E infatti, l’amatissimo Mullen, da capo della Commissione, si rivela, nel tempo, in nome della difesa della patria, capace di varcare il limite dell’Habeas Corpus, creando fratture sociali profonde. La caccia alle streghe, come nel maccartismo, confonde reali colpevoli e semplici avversari, ignorando che spesso il rischio più mortale arriva da molto vicino. Zero Day rappresenta dunque bene il duro passaggio storico che stanno affrontando, oltre ogni finzione, Costituzione e democrazia americane.
Il thriller usa i registri spionistici, psicologici e noir, con eccellenti citazioni visive all’immaginario zombie di Walking Dead e Z Nation, nelle oscure dissonanze mentali del protagonista. E togliendo al pubblico ogni certezza, affondando il colpo con una regia efficace e una scrittura ben concatenata, si ha la sensazione di non poter sfuggire ai rischi di un’epoca dove verità crudeli sono frammiste a luride menzogne, nella quale persino i più integri smettano di esserlo, tra ambiguità dei new media e criticità del futuro prossimo. Eppure, Zero Day riconduce al valore del dubbio come salvezza dall’attacco ai diritti inviolabili della persona indagata.