Thelma e Louise. Vedendo Valeria Bruna Tedeschi e Micaela Ramazzotti ne La pazza gioia (in uscita nelle sale italiane il 18 maggio e oggi a Cannes, nella “scapigliata” Quinzaine des Realisateurs), su quella macchina d’epoca, con quei sorrisi aperti e gli occhi pieni di dolore e, nonostante tutto, avidi di vita, non puoi non pensare a loro. Per fortuna, però, Paolo Virzì, come spesso gli accade, coglie uno spunto, lo attraversa con levità, e ne fa altro. Ne fa un film che si innesta in quell’evoluzione del suo ultimo cinema, più sentimentale, che cerca in figure femminili carismatiche e vibranti di emozioni e fragilità il senso più profondo della vita. E in fondo Beatrice e Donatella cosa sono se non la figlia e la nipote dell’Anna de La prima cosa bella, considerate matte perché sono uscite fuori di testa, ma soprattutto perché hanno rifiutato il loro ruolo di donne oggetto, di un marito o di un amante, di un salotto bene o di una discoteca. Beatrice è fuggita dal modello di moglie alto borghese e amante di un delinquente sottoproletario (portare Bobo Rondelli sul grande schermo e quindi a Cannes è opera meritoria per la cultura mondiale, diciamolo), Donatella da quello di cubista irresistibile, che ti fa dimenticare, con quello sguardo perso e la sensualità naturale, anche come ti chiami. E per dircelo, Virzì, ci offre dei velocissimi flashback che bastano e avanzano.Entrambe reagiscono, non ci stanno. Cercano altro, vogliono volare oltre. Ma precipitano dentro la prigione dorata di una comunità terapeutica illuminata – dolci e umanissimi i personaggi di Valentina Carnelutti, psicoterapeuta appassionata e combattiva, e Tommaso Ragno, che si definisce in pochi sguardi e gesti, così come il “cattivo” Albelli (perché nei piccoli ruoli gli attori devono essere grandi, e loro lo sono) -, dove si trovano. Per forza e per inevitabile attrazione, così vicine e diverse, ferite in maniera diversa dalla vita, naturalmente carismatiche e follemente – è un film di matte, è inevitabile – complementari.Virzì le accarezza con una macchina da presa generosa, attenta, mai disposta a movimenti banali, la scrittura le incalza con dialoghi essenziali e d’impatto, che libera Valeria Bruni Tedeschi e forse per la prima volta si tuffa in un personaggio che trova la totale empatia del pubblico, mentre Micaela Ramazzotti si mette sulle spalle una donna spezzata – in alcuni momenti ci vedi la prima Angelina Jolie di Ragazze interrotte -e non è un caso che a sceneggiare qui ci siano i due cineasti che l’hanno resa una grande attrice, ovvero Francesca Archibugi e lo stesso Paolo Virzì.Beatrice Morandini Valdirana viene riempita da una Valeria Bruni Tedeschi meravigliosa, mai così libera, sexy e con il talento a briglia sciolta. Rompe le barriere dello stereotipo che le hanno cucito addosso in questi anni e che lei ha indossato volentieri. Virzì, piano piano, l’ha saputa espugnare questa torre d’avorio radical chic in cui si era rinchiusa. Volendo trovare ancora parentele tra i personaggi della cinematografia del regista, Beatrice non è forse il sequel della Carla Bernaschi de Il capitale umano, che probabilmente ha visto esplodere dentro di sé quello che a fatica reprimeva? Dando sfogo, finalmente, alla sua vera natura, che non era certo essere una brava e viziata borghese malinconica o l’amante di un autore teatrale pretenzioso e ipocrita.Quello che le donne non dicono, e soprattutto non fanno, è qui, ne La pazza gioia. Film femminile e quindi inevitabilmente femminista, con uomini mediocri a danzare attorno a queste due amazzoni libere fino all’autolesionismo, ingenue nel pretendere amore, tenere nell’incassare i colpi della vita senza sapersi mettere in guardia.Virzì, il cinismo, non l’ha abbandonato. Il mondo che dipinge è sempre squallido, mediocre, inadeguato. Ma le sue protagoniste no, loro sono di un altro livello. Ecco perché, la macchina di Beatrice e Donatella stacca e di tanto quella di Thelma e Louise, che il regista ammette di «ricordare solo per il finale». Perché quelle sono donne in fuga, avventuriere che cercano un solo finale, a cui vanno incontro quasi con intento catartico. Perché in fondo nella testa e nel cuore di chi le dirige, non hanno fatto la cosa giusta. Qui no, qui c’è un romanzo di (tras) formazione, l’ostinata ricerca di sé di due donne eccezionali e fragili, un’amicizia che non si fonda sulla paura e l’adrenalina, ma sull’intesa profonda di due anime assurdamente affini. Anche se una veste solo d’alta moda e l’altra si scrive il nome della band del padre degenere sul bicipite, si ritrovano nell’essere incomprese e troppo coraggiose per non sfidare il mondo.Virzì, come un Enrico Ruggeri, poggia su di loro uno sguardo maschile e sensibile, capace di tirar fuori da questa storia la preziosa dose d’amore necessaria, ma anche sfoghi di rabbia e di esasperazione – il ritratto delle loro madri è da Oscar -, le segue senza sforzarsi di capirle, ma volendone mostrare la complessità irrisolta. Non (s) cade nella tipizzazione, si smarca sempre anche dalle scorciatoie di scrittura e visive più facili. Per questo di entrambe le attrici tira fuori talenti imprevedibili: quello da commediante della Bruni Tedeschi, quella da dura della Ramazzotti, finora mai così “sbagliata”. Della seconda fase dell’autore livornese – dopo la cinicommedia feroce e più maschile, il (melo) dramma familiare e più femminile -, è l’opera più luminosa, gioiosa e profonda, allo stesso emozionante – chi non piange sul finale, vada nella comunità terapeutica che ospita le due – e priva di retorica. Aiutato dalla fotografia di Radovic, capace di rendere fisiche luci e ombre di esistenze particolari, e dalle musiche di Carlo Virzì, speciali nel cercare un linguaggio altro per farti sentire il film, dentro.Si è dato alla pazza gioia, Virzì. E quanto ci piace, vederlo così. A briglia sciolta, ma capace di domare anche le storie più difficili.