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Appare nel volto di Victor Hugo un particolare che difficilmente sfugge agli osservatori più attenti.
Un dettaglio presente tanto nel volto giovanile, quanto in quello incanutito. Una minuzia colta dalle celebri caricature di Honoré Daumier, De Barray e Jean- Pierre Dantan o dai popolari scatti di Ètienne Carjat e Walery. Tra le sopracciglia, precisamente in mezzo agli occhi, compare perenne una ruga che con l’andar degli anni si moltiplica accrescendo l’espressione corrucciata, irritata, risentita, accigliata, imbronciata. Sinonimi inefficaci, tuttavia, per catturarne l’essenza e spiegarne la ragione nascosta nello spirito.
Più che burbero, o arcigno, il padre del Romanticismo francese sembra costantemente pensieroso, cogitabondo, assorto nell’escogitare modi per migliorare qualcosa, contestarlo o, addirittura, demolirlo. Come affermato nei Miserabili: «La collera può essere pazza e assurda e si può essere irritati a torto; ma si è indignati solo quando, in fondo, si ha ragione per qualche aspetto». E lui è uomo molto indignato; ben convinto delle proprie ragioni, inamovibile come il Massiccio del Giura, vicino alla città di Besançon dov’è nato nell’inverno del 1802.
Il romanziere, poeta, drammaturgo, polemista Victor- Marie Hugo, l’uomo in grado di ricoprire tutti i generi letterari, si batte pugnacemente per i diritti umani, contrasta le ingiustizie sociali e, non appena divampano in Francia i moti rivoluzionari del 1848, si getta ancor più a capofitto nell’attivismo politico. Ormai celebre come autore d’ispirazione liberale- royalista, si convince di quanto la Democrazia rappresenti la forma più diretta per la libertà e, in veste di deputato parlamentare, interviene nei lavori dell’Assemblea. Quando in giugno le masse operaie insorgono tra i boulevard parigini e la sommossa viene sanguinosamente repressa dal generale Cavaignac, Hugo rimane attonito davanti a tanta atrocità, offeso di fronte a simili barbarie. Passano pochi mesi e Luigi Bonaparte sfruttando i risentimenti nazionalisti dell’elettorato moderato, cattolico, militare, conquista oltre cinque milioni di voti e viene eletto Presidente della Repubblica. È il primo atto di un drastico ripiegamento reazionario culminato il 2 dicembre del 1851, quando con un abile colpo di stato ripristina la costituzione consolare e si garantisce pieni poteri per dieci anni.
Tre giorni dopo il corrucciato, irritato, risentito, accigliato, imbronciato Hugo, tenace oppositore di una politica autoritaria che sopprime la libertà di stampa e requisisce i beni agli avversari politici, sale su un treno per il Belgio scegliendo l’esilio. Supera il confine sotto falso nome, sosta per un poco a Bruxelles, infine ripara sull’isola di Guernesey, nei pressi della Manica. Sebbene “isolato” combatte con fatti e parole contro il Secondo Impero; insiste, non demorde, rifiutando perfino un’offerta di amnistia. Pubblica I Castighi (1853) violenti versi satirici contro Napoleone III; medesima ironia la riversa nel pamphlet Napoleone il Piccolo (1852) e in Lettere a Luigi Bonaparte (1855). Conducendo un indefesso duello a distanza, una sfida perseguita finché la disfatta di Sedan non sancisce la rovina politica bonapartista consentendo finalmente allo scrittore l’atteso rimpatrio. In quei lunghi anni di esilio, però, l’autore di Besançon termina i tre volumi di rievocazioni storiche e memorie autobiografiche della sua opera più nota: I Miserabili (1862) perseguendo un preciso impegno letterario e sociale che mai scema, anzi si affila. In una tagliente frase dei I lavoratori del mare (1866) scrive: «Quasi tutto il segreto delle anime grandi si racchiude in questa parola: “perseverando”. La perseveranza è, rispetto al coraggio, ciò che è la ruota rispetto alla leva; il perpetuo rinnovarsi del punto di appoggio». Un’autentica professione di fede, dimostrazione di sguardo ostinato e penna pungente; audace nel confessare la realtà, nel dichiararla senza sconti: «È dell’inferno dei poveri che è fatto il paradiso dei ricchi» si legge in L’uomo che ride (1869).
Passano diciannove anni, dunque, e la groppa selvatica della storia disarciona Napoleone III. Il 4 settembre del 1870 la Francia proclama nuovamente la Repubblica, la Terza, e dopo quasi due decenni di lontananza il sessantottenne Hugo, rientra trionfalmente a Gare du Nord accolto dagli applausi della folla. Torna in città, la vita, tanto quanto l’attivismo politico, riprende e attorno a lui si ritrovano intellettuali e artisti come Flaubert, Houssaye, Banville, Edmond de Goncourt. Durante il lungo esilio aveva agognato, immaginato, perfino raccontato quei luoghi e l’occasione gli si era presentata redigendo un testo diventato l’introduzione alla guida di Parigi per l’Esposizione Universale del 1867. Lo firma nonostante la ritrosia dell’opinione pubblica, contraria a promuovere un evento voluto da Luigi Bonaparte per sancire la magnificenza del Secondo Impero. Sul contenuto della “guida”, alla quale contribuiscono anche Michelet, Edgar Quinet, Dumas figlio, George Sand, il battagliero Hugo non cambia idea. Accetta l’incarico con massima serietà, fermamente determinato ad assolvere un compito preciso: riflettere sulla città senza limitarla all’evento mondano.
Ne risulta uno scritto di ampio respiro, attento nel sollevare il ragionamento su piani filosofici, etici, storici. Pur esagerando, pur lasciandosi scappare la mano in esternazioni che Henry James definisce “vaticini politici”, Hugo supera i confini urbani e immagina per Parigi un decisivo ruolo nel presente, nel passato e, soprattutto, nel futuro. Già nel 1831, in Notre- Dame de Paris, Hugo aveva descritto Parigi ai tempi del basso Medioevo, sotto la corona di Luigi XI, in un romanzo storico tinto di Romanticismo. Nel 1867, invece, la osserva come un fenomeno oscuro e misterioso, fonte unica e incomparabile per ogni aspirazione universale, domandandosi: «Là c’è Parigi, e bisogna meditarci. Come si è formato questo capoluogo supremo?».
Una domanda immensa, che necessita di cavillosa fatica. Divide il testo in cinque parti concettuali: L’avvenire, Il passato, Supremazia di Parigi, Funzione di Parigi, Dichiarazione di pace ed elegge Parigi a Mito, non meramente simbolico. Analizza con metodo, sviluppa suggestioni, espone e propone angolazioni nuove, consegnando ai lettori il ruolo che la capitale francese avrebbe dovuto sostenere. Un lavoro che la traduttrice, critica e grande esperta di Hugo, Jacqueline Risset, definisce come un elogio così radioso da non poter esser trascurato nel Ventesimo secolo, pure se: Profezie e panegirici facevano parte per Hugo, si sa, della strategia dell’esilio. Essi servivano a scongiurare l’esclusione il sentimento di disfatta. In questo caso i grandi slanci lirici, gli impeti incontrollati, hanno anche la funzione di preparare la fine di un esilio troppo lungo e la caduta tanto desiderata dell’impero, che nel 1867 da già segni di indebolimento.
Inoltre, questo testo appassionato, senza dubbio esageratamente appassionato ma efficace per noi proprio il suo eccesso, ci dà la misura del nostro scacco storico. Hugo aveva sentito e vissuto gli ideali rivoluzionari con l’entusiasmo idealista dei suoi anni giovanili, ma anche nell’impegno quotidiano della maturità. Quello che allora gli sembrava realizzabile, e realizzabile in tempi brevi, erano l’insieme delle grandi cause per le quali si batteva ogni giorno: il suffragio universale, la scuola pubblica gratuita, il rifiuto della pena di morte, i diritti delle donne, i diritti dei bambini. Visionario alle volte, dunque, ma sempre aperto al cambiamento, al miglioramento del genere umano. Victor- Marie Hugo muore nella sua Parigi nel 1885 dopo una breve malattia. Tutta la Francia si raccoglie per rendergli omaggio e alla camera ardente, allestita sotto l’Arco di Trionfo, presenziano le maggiori cariche politiche e artistiche. Il feretro viene subito trasportato al Pantheon, dove oggi riposa vicino a Dumas e Zola. Muore quattro anni prima della nuova Esposizione Universale, poco prima che la Torre Eiffel osservi la città dall’alto e Parigi diventi quel modello culturale e filosofico capace di influenzare il Novecento, proprio come intuito dallo stesso Hugo. Forse nemmeno sul letto di morte le rughe scomparvero dal suo viso, probabilmente la fronte corrucciata, sforzo di pensieri e battaglie, rimase una caratteristica fino alla fine. Giocando con la fantasia, però, è piacevole immaginare che sul volto in quella sera di settembre, rientrando da Gare du Nord e godendo di quelle persone festanti, per qualche secondo almeno le rughe siano scomparse rendendolo sereno, chissà quasi felice.