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Quel che più colpisce di Lucia Calamaro, non solo a teatro, ma anche mentre si dialoga con lei, è il rispetto per le parole. Ci sono in lei un’attenzione, un equilibrio – in tempi verbalmente squilibrati come questi –, una misura calda che restituiscono valore al lessico e alle sintassi. Lucia Calamaro ha una vita, una formazione e un successo internazionali. Nata a Roma, a tredici anni si è trasferita a Montevideo, in Uruguay, ha studiato Arte ed Estetica alla Sorbona di Parigi e ha iniziato la carriera teatrale prendendo parte e dando vita a spettacoli in queste tre capitali.
Drammaturga, regista, attrice, è la voce più interessante, oggi, in Italia e non solo. Questa settimana al Teatro Argentina di Roma è in scena il suo Si nota all’imbrunire ( solitudine da paese spopolato), edito da Marsilio, con la sua regia e Silvio Orlando protagonista, affiancato da Riccardo Goretti, Roberto Nobile, Alice Redini e Maria Laura Rondanini. È la storia di un uomo che confonde realtà e desideri. Silvio ( i personaggi hanno gli stessi nomi degli attori) vive da tre anni solo in un villaggio spopolato. I figli e il fratello Roberto sono venuti a trovarlo per la messa commemorativa a dieci anni dalla scomparsa di sua moglie. Il protagonista nella solitudine ha accumulato diverse manie, tra cui il rifiuto di camminare. La sua condizione agita le acque familiari e scatena cortocircuiti emotivi.
Sempre in questi giorni, all’India, il Teatro di Roma produce il progetto Scritture, ideato e curato da Lucia Calamaro, con la consulenza di Graziano Graziani. In scena sei giovani autori- autrici ( Marco Ceccotti, Mariagiulia Colace, Mariasilvia Greco, Luca Oldani, Costanza Pannacci, Sara Parziani) che, dopo un’attenta selezione, approdano sul palco con i loro testi e fanno ben sperare. Perché – come dice la curatrice – “siamo convinti che in quest’epoca che ci scappa tra le mani, ci sia una gran bisogno di parole. Parole buone a dire la vita quanto si riesca normalmente a capirla”.
Ma torniamo alla situazione di Silvio e parliamone con l’autrice. La solitudine, un problema sociale e un problema esistenziale. Da che lato lo prende?
Possiamo parlare di quello che conosciamo. Quindi dal lato intimo esistenziale, che però poi ha un riflesso sociale. La solitudine è sia uno stato d’animo, sia una condizione, passiva o attiva, voluta o subita. In questo momento, effettivamente, le notizie sono un poco allarmanti, come se ci fosse un’epidemia di solitudine che attraversa l’Occidente.
E attraversa anche il protagonista dello spettacolo…
Con il personaggio di Silvio Orlando abbiamo creato una figura – nel senso inteso da Auerbach, speriamo –, una figura verticale che rappresenti questo tipo di condizione e crei un’empatia. La cosa che interessa a me e a Silvio è creare un’empatia, perché le persone sole hanno bisogno della mano dell’altro per uscire da questa condizione.
Questa solitudine è un volto del dolore che lei declina nei suoi diversi testi. C’è un’attiguità della morte, un desiderio di spegnimento. Qual è il riflesso della morte sull’equilibrio degli affetti del personaggio Silvio?
Io provo ancora stupore, e ho sempre avuto una grande tenerezza, quando vedo due persone molto anziane che si tengono per mano, o quando qualcuno mi dice: «Sai, i miei genitori stanno insieme da cinquant’anni». È qualcosa che mi crea meraviglia, mi domando: «Ma come hanno fatto?». Quindi immagino che a una creatura binaria, come è una coppia che regge insieme un’existentia, la mancanza di uno di quei poli crei un totale squilibrio nell’altro polo rimasto. Questo effetto di ritiro di Silvio è dovuto al fatto che sta mancando quella persona testimone di una vita. È un omaggio a quelle coppie che durano, che attraversano il tempo, che resistono, che non mollano. Nella maggior parte dei casi, per quanto ho visto, quando muore uno dei due, l’altro non tarda a seguirlo. In questo caso si tratta di una morte sociale.
Lei ha grande attenzione per il linguaggio. Come viene declinato lo scambio tra questo padre, i figli, il fratello?
Credo oscilli fra tenerezza e amarezza, tra speranza e delusione. In generale è tra queste quattro parole che oscillano i legami familiari.
Lei è anche regista dei suoi spettacoli, in cui vediamo poesia e quotidiano, metafisica e concretezza, Anche in questo caso esiste questo doppio binario?
Credo lo abbia ogni essere umano, perché ha un dentro e un fuori. Ciò che è fuori è concreto, quel che è dentro è metafisico. Sì, questa chiave la porto nei miei spettacoli e nei miei personaggi, ma perché è attinente all’essere umano.
Com’è lavorare con Silvio Orlando?
È un attore così bravo, proprio bravo; bravissimo. In teatro questo significa: generoso, aperto, studioso, severo con se stesso, in ascolto. Quindi è stata un’esperienza positivissima. Artisticamente per me è stato un grande incontro, perché un attore con un’esperienza come la sua, un attore che s’immola, come Silvio, non ha solo mestiere, ma passione, una ricerca portata avanti da sempre. Quindi è stato molto bello.
Il personaggio Silvio ha una mania grave, non vuole più camminare. Qui torna l’importanza del simbolo, della metafora…
Il teatro è una delle pratiche in cui se non c’è simbolo non c’è niente. Al contrario del cinema, il teatro lavora moltissimo con quello che non si vede e quello che non c’è: è una pratica che chiama l’assenza e la rende presente con il corpo spurio dell’attore. Il teatro, lo spettacolo in sé, è una pratica d’invocazione di quello che sta in altri mondi. Il simbolo prevale anche in un teatro non simbolista.
Per la sua visione della drammaturgia, la sua attenzione al presente, pensa che ci siano dei vuoti nella scrittura teatrale italiana?
Al di là che ci sia o non ci sia un buco, io prediligo gli autori contemporanei – sia di poesia che di romanzi, che di teatro –, in grado di squarciarmi il reale, che abbiano la capacità di incidere la realtà, che è fuori, e di farmi vedere cose che mi sono sfuggite. Ecco questo è per me un autore che amo leggere, scoprire, o andare a vedere a teatro. Per questo prediligo gli autori che lavorano su quello che succede intorno, perché hanno la capacità di tagliare questa massa confusa d’informazioni e di far venire fuori qualcosa, di ingrandirlo e farmelo vedere bene. Se questa sia una tendenza di tutta la drammaturgia italiana, se dovrebbe esserlo, non saprei dirlo.