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È morto l’altroieri, a 92 anni, Giovanni Galloni. Ieri non ho trovato traccia di questa notizia sulle prime pagine dei giornali. E neanche sulle homepage dei siti, che pubblicavano altre notizie e ci informavano anche della morte di altre persone, ma non di Galloni. Un personaggio, evidentemente, considerato come una figura minore dai giornalisti e dagli intellettuali. Un politico puro ( oltre che un giurista) sobrio, poco conosciuto in Tv, riservato, percettore di vitalizio. Diciamo pure un uomo trascurabile. Casta, casta...
No, non è solo una questione di nostalgia. È un fatto indiscutibile: lo spirito pubblico in questi anni ha subito un fortissimo decadimento, e l’annientamento della politica e il disprezzo per l’immaginario che la politica suscitava, sono stati probabilmente due delle cause di questa deriva.
Chi era Giovanni Galloni ve lo racconta Francesco Damato nell’articolo che pubblichiamo qui accanto.
Damato lo ha conosciuto molto bene. Io l’ho conosciuto poco, sul piano personale, ma ricordo benissimo del ruolo decisivo che ebbe Galloni nella politica italiana, soprattutto nella stagione della solidarietà nazionale, cioè negli anni del grande riformismo che trasformò questo paese e lo fece approdare alla modernità.
Galloni era uno dei cervelli pensanti più rigorosi e lungimiranti di quella macchina politica che fece vivere la prima repubblica, e portò l’Italia a grandi successi, nonostante l’asprezza della lotta e del clima politico di quegli anni, e le grandi difficoltà dell’economia. Allora il ceto politico era molto ampio e variegato. C’erano i burocrati, c’erano gli organizzatori, c’erano quelli capaci di aggregare il consenso, i clientelari, i combattenti, e poi c’erano anche i cervelli, gli strateghi, gli intellettuali. Un vero leader politico doveva essere in grado di coprire diversi questi ruoli. E comunque gli si chiedeva di essere un intellettuale. I leader politici erano molto colti. Come Moro, Amendola, Ingrao, Lombardi, La Malfa, Fanfani. Tutti loro erano leader nel senso pieno, organizzatori, creatori di consenso, oratori, pensatori.
Galloni era soprattutto un pensatore, che agiva in gruppo, ma credo che senza la sua capacità di pensiero, ma anche la sua prudenza e le sue doti di mediatore, la solidarietà nazionale sarebbe stata impossibile. Berlinguer e Moro la disegnarono, ma Galloni fu decisivo nel gestirla e nel trasformarla in una stagione di grande riformismo. Anche dopo la morte di Moro e durante la fragile segreteria Zaccagnini.
Vi dicevo che un pochino l’ho conosciuto anche personalmente. E’ stato nel 1968. Andavo a scuola dai preti a piazza di Spagna, e a scuola con me c’era il figlio di Galloni, Nino, che oggi è un economista noto. Allora, insieme, organizziamo le ( piccole e un po’ clandestine) proteste politiche. Ai preti non piacevano. Una volta ci sorpresero a distribuire volantini fuori dal portone e ci rifilano 15 giorni di sospensione. Allora, insieme ad altri compagni di scuola un po’ rivoltosi, ci riunimmo a casa di Nino, per prendere delle contromisure. Stavamo chiusi lì, a discutere in una nuvola di fumo, quando si aprì la porta ed entrò l’onorevole Galloni, con un libro in mano, sorridente. Ci lesse qualche riga di questo libro ed erano righe che spiegavano quanto fosse velleitaria la battaglia che noi stavamo conducendo. Poi alzò lo sguardo verso di noi e citò l’autore di quelle righe, scandendo bene le tre parole: Vladimir - Ilic - Lenin. Sorrise di nuovo e andò via.
tormento. Votò inutilmente per Moro, mentre gran parte dei suoi colleghi di corrente votò per Leone, il cui figliolo Mauro d’altronde era già o sarebbe diventato presto - non ricordo più beneconsigliere nazionale della Dc proprio per la sinistra di Base. “Hanno fatto - mi confidò Galloni parlando degli amici di corrente - un torto ingiusto a Moro e un cattivo servizio a Leone, condannandolo a gestire una fase politica pericolosa”.
Il centrosinistra infatti si interruppe. La Dc sostituì i socialisti con i liberali di Giovanni Malagodi al governo e si incamminò verso quel referendum sul divorzio che, gestito proprio da Fanfani alla segreteria del partito nel 1974, avrebbe compromesso duramente la lunga primazia politica dello scudo crociato.
Ma di Leone il povero Galloni era destinato ad occuparsi drammaticamente nella primavera del 1978, dopo la tragica fine di Moro, che già l’aveva tormentato partecipando come vice segretario della Dc alla gestione della cosiddetta linea della fermezza. Una linea dove Moro, dalla prigione delle brigate rosse, stentava a credere davvero che fosse sinceramente attestato l’amico Galloni, di cui faceva ricorrentemente il nome nelle lettere ai democristiani incitandoli a salvargli la vita, anche a costo di trattare con i terroristi che lo avevano sequestrato sterminandone la scorta.
Alla fine di Moro seguì quella anticipata del settennato presidenziale di Leone. Ebbene, toccò proprio a Galloni andare al Quirinale, mandatovi dal segretario del partito Benigno Zaccagnini, per chiedere al capo dello Stato il “sacrificio” delle dimissioni, reclamate con una paradossale simmetria dai radicali di Marco Pannella e dal Pci di Enrico Berlinguer continuava a scrivere e a pubblicare, facendoci lo sconto sui prezzi di copertina: saggi della consueta lucidità.
Giovanni non riuscì mai a dimenticare, in particolare, il rude trattamento riservatogli dall’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga, quando lui ne era il vice al vertice del Consiglio Superiore della Magistratura. Cossiga arrivò nel 1991 a ritirargli pubblicamente quasi tutte le deleghe, restituitegli poi dal successore Oscar Luigi Scalfaro. La contesa, chiamiamola così, era scoppiata attorno al diritto nuovamente rivendicato da Cossiga, dopo un episodio analogo verificatosi col precedente Consiglio Superiore, ai tempi del governo Craxi, di dire l’ultima parola sugli ordini del giorno dell’organo di autogoverno della magistratura. La cui presidenza è affidata dalla Costituzione al capo dello Stato.
I rapporti tra la magistratura e il Quirinale erano tesissimi. Si arrivò alla proclamazione di uno sciopero nei tribunali contro il presidente della Repubblica, cui si rifiutò di aderire a Milano, con tanto di cartello appeso alla porta del suo ufficio, il sostituito procuratore Antonio Di Pietro. Che Cossiga naturalmente volle poi conoscere personalmente, instaurando con lui rapporti altrettanto naturalmente destinati poi a rompersi.
Ma la vice- presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura fu dolorosa per Galloni anche dopo la presidenza di Cossiga, in particolare quando le inchieste giudiziarie sul finanziamento illegale della politica travolsero i partiti di governo e l’intera cosiddetta prima Repubblica. Galloni era sommerso dalle proteste di vecchi amici di partito e non, che volevano da lui interventi risolutivi contro questo