«Conta la destinazione, non il viaggio» : questa frase tratta dal film, racconta la fatica dell’arte e della vita. In settembre Brady Corbet ha vinto Leone d’Argento e Premio Speciale per la Regia di The Brutalist, e una standing ovation di dodici minuti ha commosso alle lacrime il protagonista Adrien Brody.

Enormi consensi di pubblico e riconoscimenti dai più autorevoli critici americani hanno fruttato tre Golden Globe e dieci candidature all’Oscar. Tra esse, la nomination a Judy Becker e Patricia Cuccia, scenografe abilissime nell’ideare oggetti, spazi e architetture di un film capolavoro.

The Brutalist nasce da scelte precise, coraggiosamente antistoriche: sei anni di preparazione, budget sotto i dieci milioni di dollari, ripagato da ottimi incassi, tre ore e mezza di durata. Pandemia e guerra russo- ucraina hanno mutato ambientazioni e cast; il 16 marzo 2023 veniva dato il primo ciak in Vista Vision; l’ultimo il 5 maggio seguente tra le cave di marmo di Carrara, un tempo covo di partigiani e patibolo dei repubblichini.

Con cura e professionalità maniacali, e l’autonomia di una produzione indipendente, la pellicola con impegno significativo affronta grandi temi, con approccio poderosamente intimista. Alla Notte degli Oscar affronterà Emilia Pérez e Wicked, ma The Brutalist ha in più una precisa matrice artistica che gli fa varcare ogni limite esplorativo, ridefinendo i canoni del cinema, in una nuova epica della creatività.

A un pubblico attento chiede un tempo narrativo dilatato ma assicura infinita libertà di percorso; e nel coraggio della sperimentazione, offre una rigorosa struttura formale. Le sequenze di apertura, con titoli di traverso su sfondo nero, danno inizio allo scomodo viaggio visivo, nel ventre buio di una nave, nello sguardo spaurito dell’esule ebreo ungherese László Tóth, architetto sopravvissuto alla Shoah. Corbet ne mostra appunto gli effetti distruttivi sulle vite di ognuno, nella descrizione di una dialettica tra colpa e memoria degli scampati, destinata a cessare solo a fine esistenza.

Quella dello splendido irregolare polacco Adrien Brody è un’interpretazione straordinaria e toccante, che attinge a un complesso vissuto emozionale, illuminando nel dolore di uno sguardo smisurato l’oscura impossibilità di dimenticare: uno spaesamento che è condanna all’infelicità permanente, e al rischio di nuove diaspore e conflitti familiari, tra il nascente Stato d’Israele e l’America delle false promesse, dove il profugo László è accolto dal cugino Attila Molnár, che per integrarsi ha rinunciato alle radici. Nell’alternarsi di solitudine e speranza, si fa strada il dolore irriferibile dei senza patria di ogni luogo e tempo. Poco si sa se dell’amata Erzsébet, internata a Dachau dai nazisti con la nipote Zsófia, e ancor meno della vita precedente di Tóth, giovane esponente del Bauhaus, ossessionato dalla ricerca estetica, persino da recluso a Buchenwald. I tre atti del film colgono L’enigma dell’arrivo, titolo del romanzo di Naipaul del 1987. Il nocciolo duro della bellezza nel secondo atto capovolge relazioni, obiettivi, equilibri. Erzsébet, magistralmente interpretata dalla candidata all’Oscar Felicity Jones, ha corpo e anima straziati.

Il futuro in due sarà accidentato, nella dolorosa accettazione di quanto amore è stato strappato via per sempre nei campi di sterminio. La coppia vive una silenziosa dissonanza, tra occhi lucidi e materia bruta, quotidianità e progetti, nella comune dannazione di idee e spazi; in Tóth coesistono la diaspora di un popolo e la solitudine individuale, l’affresco sociale e il concetto di Patria. L’Epilogo lascia domande aperte sul futuro dell’arte, della libertà, dell’umanità stessa. Così come gli spazi angusti dell’edificio Van Buren attirano lo sguardo verso il senso del cielo, fuori dai paludosi scantinati dell’inconscio.

Il regista Brady Corbet per narrare la dialettica tra arte e capitale sceglie tecniche di ripresa proprie dell’epoca ritratta, girando in pellicola da 70 mm., usando trucchi ottici nel trasformare un modellino nel gigantesco edificio di cemento e acciaio della Fondazione commissionata dall’ambiguo magnate Harrison Van Buren, interpretato da un sulfureo Guy Pearce.

Corbet si avvale infatti di grandi interpreti di formazione teatrale, spingendoli lungo sconosciuti sentieri di campagna. Poi li istrada su una collina, laddove sembra che l’arte possa rubare alla natura i suoi segreti, donando respiro vitale alla materia bruta, secondo gli insegnamenti di Le Corbusier. Il film ci mette in relazione con il tempo della performance artistica, fuori dalla scansione temporale regolare, ma paradossalmente quanto più l’autore prova ad avvicinarsi alla realtà, tanto più è costretto a tradirla, facendo nascere un genio mai esistito e mostrando opere mai progettate, in contrasto col tragico inverarsi del più incredibile tra gli incubi: la Shoah. E a tradirsi è anche lo stesso personaggio di László, che insegue il futuro sfuggendo ai ricordi, annullando sé stesso tra eroina e cemento. Tra realtà e finzione Corbet sceglie dunque il virtuale, e non nei dialoghi in yiddish o in ungherese appena corretti in pronuncia da un software di AI, quanto piuttosto nel mostrare quanto sarebbe potuto essere e non è stato, secondo il What if…? in sceneggiatura.

Il fascino dell’architetto che ha il volto ramingo di Adrien Brody è nella sua verosimiglianza: sarebbe davvero potuto nascere in un villaggio di pescatori, e sfuggire alla prigionia per guardare di sguincio le forme della Statua della Libertà. Ma anche nel suo non esistere serve che Laszlo usi il simbolo delle architetture brutaliste, - «qualcosa che le persone non comprendono e quindi vogliono abbattere e sradicare» -, come dice il regista, per indicare la via di una bellezza nuova, in radicale alternativa all’orrore e all’odio.