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«Tex mi ha assorbito un po’ troppo e la gente è portata a ricordarmi solo per questo, però devo dire che il personaggio mi ha ripagato di tutto il tempo che gli ho dedicato» ammetteva in un’intervista l’indimenticabile Galep, il creatore grafico del più celebre personaggio a fumetti italiano, da lui disegnato ininterrottamente per oltre quarantasei anni. Ispirandosi alle fattezze di Gay Cooper, a dare volto e caratteristiche all’icona di Tex Willer – l’eroe dei fumetti pensato e voluto dall’editore Gian Luigi Bonelli – era stato proprio Galep. Si trattava dell’artista che con Pratt, Jacovitti, Battaglia, Magnus e Sergio Zaniboni – il disegnatore di Diabolik, scomparso ottantenne il 18 agosto – compone la pattuglia dei nostri fumettisti più popolari degli anni d’oro. Dietro quello pseudonimo, familiare negli anni a tutti i baby boomer italiani che lo leggevano nelle pagine di Tex, si nascondeva il disegnatore Aurelio Galleppini, di cui il lunedì 28 agosto ricorre il centenario della nascita. Era venuto a questo mondo a Casale di Pari, un piccolo paesino della provincia di Grosseto da genitori sardi e aveva cominciato del resto ad appassionarsi fin da piccolo al disegno dei cavalli. Il contesto maremmano fu propizio, del resto: i butteri erano in qualche modo i parenti italiani dei cow boys americani.
D’altronde, quando nel 1948 Tex sbarca nelle edicole, il western in Italia è ancora poco conosciuto. Del Texas, del Colorado, del New Mexico o dell’Arizona da noi si sa quasi nulla. Non c’è documentazione fotografica che possa aiutare, pubblicata per lo più su libri americani quasi inaccessibili nel Belpaese. Per la vita quotidiana e i costumi degli indiani si sarebbero dovuti attendere gli anni 60 con i lavori di John Neihardt o Jaime de Angulo. A disposizione c’era solo cinema, sulla scorta dei film di John Ford, Ombre rosse e qualcun altro. Ma così come era stato per Emilio Salgari, anche Galep e Bonelli sono davvero bravi a “reinventarsi” un loro Far West. Galleppini, infatti, per i ranch si ispira alle fattorie della sua Maremma grossetana. E con quei suoi disegni s’impone la vera nascita del “western all’italiana”, ben diciott’anni prima della versione cinematografica di Sergio Leone.
Lo strillo pubblicitario di Tex era semplice: “L’albo più ricco al prezzo più povero”. Si trattava di trentasei pagine in formato striscia, al modico prezzo di quindici lire. Il primo episodio aveva un titolo accattivante: “Il totem misterioso”. Ma è importante, decisivo, per comprenderne il successo il preciso contesto storico e politico. In quell’autunno del ’ 48, gli italiani avevano attraversato una campagna elettorale durissima – Dc contro Fronte popolare – e avevano accettato il responso delle urne del 18 aprile, avevano assistito all’attentato a Togliatti e festeggiato la vittoria di Bartali al Tour de France. Ma si respirava aria di normalizzazione bacchettona. I benpensanti filo- Dc e i severi dirigenti del Pci dettavano la linea. Era un’Italia in cui non c’era troppo spazio per chi non si allineava alle direttive dell’oratorio o del Comitato centrale. Eppure, nonostante tutto, mentre dagli ambienti conservatori clericaleggianti si invitava a censurare statue o pellicole osé e mentre i fedeli al realismo socialista stroncavano l’arte contemporanea, l’apparizione nelle edicole di quel primo “albo striscia” settimanale, insinuava un sotterraneamente vento di novità. Tex Willer, infatti, era destinato a unificare le pas- sioni di tutti i giovani e giovanissimi italiani in un moderno mito nazionalpopolare così come a dividere l’opinione pubblica. Solo tre anni dopo – su Rinascita, nel dicembre ’ 51 – Nilde Iotti si scagliava contro i nuovi fumetti, considerandoli inevitabilmente collegati a decadenza, corruzione e malcostume giovanile: «La gioventù che si nutre di fumetti – scriveva quella che era stata la compagna di Togliatti – è una gioventù che non legge e questa assenza di lettura nel senso proprio della parola non è l’ultima tra le cause di irrequietezza, di scarsa riflessività, di deficiente contatto col mondo circostante e quindi di tendenza alla violenza». D’altro canto, l’Italia in cui irrompeva Tex era quanto ai fumetti – lo ha ricordato Oreste del Buono – «una terra di eroi positivi agli arresti domiciliari», in preda «alle bande della Dc alle prime esperienze di quello che sarà il suo lunghissimo dominio: il fumetto veniva tollerato purché non ospitasse la crisi dei valori borghesi». Un pregiudizio molto diffuso: genitori ed educatori cercarono in tutti i modi di arginare la crescente passione per i fumetti dei ragazzi del secondo dopoguerra. «Mio padre a Modena – ha raccontato il cantautore Francesco Guccini – i fumetti non me li faceva leggere, perché diceva che mi avrebbero fatto perdere l’abitudine alla lettura. Mai profezia fu più errata: i fumetti mi hanno aperto mondi meravigliosi. E, nel 1948, cominciò a uscire Tex Willer…».
Bastò, insomma, il personaggio tratteggiato da Galep per dare il senso di una rivoluzione dei costumi. Sguardo fiero, cappello a larga tesa, fazzoletto intorno al collo. In quell’Italia conformista e benpensante, Tex irrompeva a cavallo del suo inseparabile purosangue Dinamite e armato di una Colt 45. «Hai mai inteso parlare di Tex Willer?», chiede il pistolero nella sua prima immagine disegnata, ritratto al riparo da una roccia mentre prende sotto la sua protezione Tesah, una bella ragazza indiana in fuga, e aggiunge: «Tex Willer, il giustiziere solitario? Proprio io, e se hai sentito parlare di me, saprai anche che io uccido solo chi merita di essere ucci- so».
Siamo nel 19esimo secolo. Fuorilegge nei primi numeri, poi ranger e agente della riserva indiana, Tex si integra a tal punto con i Navajos da sposare Lilyth, la figlia del gran capo, e diventare a suo volta, con il nome di Aquila della Notte, un capo indiano. Quasi una prefigurazione, ma molti anni prima, di figure come Un uomo chiamato cavallo o Il piccolo grande uomo della cinematografia Usa, i personaggi che inaugureranno il “revisionismo” sui pellerossa.
Tex si muove principalmente tra l’Arizona, il New Mexico e il Colorado, anche se insieme ai suoi amici – il leggendario Kit Carson e il fedele indiano Tiger Jack – non disdegna avventure in luoghi più lontani. Ma quella di Tex, ricordiamolo, è un’America molto italiana. Un’America irriverente e utilizzata – magari inconsapevolmente – come mito libertario per fuoriuscire dalla cappa ideologico del conformismo. Come avverrà in seguito anche con quegli “spaghetti western” – da Per un pugno di dollari a Django – di cui Tex ha direttamente influenzato la nascita. Tanto è vero che quando – solo nell’ 88 – l’editore Bonelli andrà a visitare le terre di Aquila delle Notte, quei luoghi che aveva solo immaginato, ne sarà deluso. Il suo Tex, commenterà, non è infatti americano, ma un italiano saldamente attaccato all’Italia profonda, quella di prima della guerra, dei pasti “frugali” come quelli di Tex. Insomma: un eroe in realtà in grado di affermarsi soprattutto in Italia. Lo ha spiegato un fine esegeta dei miti della società di massa come Diego Gabutti: «Tex Willer, americano com’è per volontà e rappresentazione, è a tutti gli effetti una classica maschera italiana al pari di Arlecchino e Pulcinella. E che uno dei nostri principali caratteri nazionalpopolari dovesse nascere in Arizona, chiamarsi Tex Willer, vivere in una riserva indiana, combattere nella Guerra di Secessione e girare il West con la stella di ranger del Texas è cosa che neppure Antonio Gramsci avrebbe potuto prevedere».
Tanto questo è vero che il personaggio disegnato da Galep diventa l’eroe privilegiato per gli adolescenti dell’Italia in marcia verso il miracolo economico. Il successo è tale che nell’ottobre del ’ 58 arriva in edicola La mano rossa, il primo numero del cosiddetto Tex gigante, l’albo mensile dal nuovo formato «quaderno a dorso quadro», il cosiddetto “formato bonelliano”, un classico del fumetto italiano. E tutte le copertine, fino al 1994 – anno della sua scomparsa – saranno disegnate immancabilmente tutte da Galep. A differenza dei loro genitori – dc, comunisti, o altro fossero – gli adolescenti italiani si ritrovarono tutti accomunati da una passione unificante, quella per Tex. Che, d’altronde, era un personaggio portatore di un vento nuovo… Ha scritto Massimo Fini: «Tex non era il Bene. Non era neanche il Male. Era il Bene a modo suo. Per cominciare aveva dei vizi: beveva whisky e fumava. Inoltre, mentre gli eroi degli altri fumetti erano asessuati o avevano di fronte alla donne delle reazioni da giuggioloni, da nano Eolo, di Tex si capiva, sia pure per accenni casti e virili, che le donne gli erano tutt’altro che indifferenti». I custodi della morale pubblica non faticarono ad accorgersene. Tant’è che pensarono anche di censurare il fumetto disegnato da Galleppini. Nel ’ 51, infatti, due deputati della Dc, Maria Agamben Federici e Giovan Battista Migliori, presentano alla Camera un progetto di legge che istituiva il controllo preventivo sui fumetti. Fortunatamente, la proposta viene bocciata in Senato. E proposte analoghe vennero ripresentate – pur senza essere mai approvate – nel ’ 55 e, non casualmente, nel ’ 58, anno in cui Tex diventa “grande”. Gli editori, comunque, cercarono di prevenire l’aggressione moralista per evitare la paralisi dell’editoria per ragazzi. Istituirono infatti una propria “commissione di autocensura” con tanto di marchio che, fino alla fine degli anni ’ 60, appariva su tutte le pubblicazioni: «G. M.», “garanzia morale”. «Oggi tutto quel pandemonio – raccontò negli anni ’ 90 Sergio Bonelli, figlio di Gian Luigi e suo prosecutore – sembra ridicolo. Fatto sta che noi editori, in assurde riunioni, dovevamo stabilire. O meglio cercare di interpretare, calandoci nella mentalità dei famosi deputati, i “confini” della morale. In Tex c’era un’indianina con le cosce nude? Presto, una maxigonna! In Tex c’era una sciantosa scolata? Presto un girocollo! E poi in Tex c’era la violenza… Le pistole furono spesso coperte dalla “biacca”, lasciando buoni e cattivi disarmati. Ma, visto che non c’era tempo per rifare completamente i disegni, i personaggi rimanevano in una posizione di sparo buffa e inspiegabile». Immaginate le arrabbiature di Galep, che vedeva così regolarmente rovinati i suoi disegni.
Alla fine, comunque, Tex superò anche quella fase e arrivò indenne agli anni 70, rilanciandosi in un successo straordinario che a oggi non ha conosciuto cali. Ha proprio ragione Massimo Fini quando, parlando di Tex – «per anni negletto e malvisto» dai custodi della cultura cosiddetta “alta” – arriva a definirlo «il primo trasgressore della morale corrente che mi sia capitato di incontrare. Non la morale del West, va da sé, ma quella perbenista, borghese, baciapile, ipocrita, formalista, che metteva l’ordine e il conformismo sopra la verità e la giustizia, in cui vivevamo negli anni ’ 50». Forse è proprio così, Tex – eroe trasversale dell’immaginario, amato a destra e a sinistra, dai laici e dai cattolici – è forse stato storicamente il primo anticipatore del nostro Sessantotto.