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Il Padilla (il figlio del Castellano di Milano, sospettato di essere il mandante degli untori, ndr), dal castello di Pizzighettone, dov'era stato trasferito, fu condotto a Milano il 10 di gennaio del 1631, e messo nelle carceri del capitano di giustizia. Fu esaminato quel giorno medesimo; e se ci fosse bisogno d'una prova di fatto per esser certi che anche que' giudici potevano interrogar senza frodi, senza menzogne, senza violenze, non trovare inverisimiglianze dove non ce n'era, contentarsi di risposte ragionevoli, ammettere, anche in una causa d'unzioni venefiche, che un accusato potesse dir la verità, anche dicendo di no, si vedrebbe da questo esame, e dagli altri due che furon fatti al Padilla.I soli che avessero deposto d'essersi abboccati con lui, il Mora e il Baruello, avevano anche indicati i tempi; il primo all'incirca, il secondo più precisamente. Domandaron dunque i giudici al Padilla, quando fosse andato al campo: indicò il giorno; di dove fosse partito per andarci: da Milano; se a Milano fosse mai tornato in quell'intervallo: una volta sola, e c'era rimasto un giorno solo, che specificò ugualmente. Non concordava con nessuna dell'epoche inventate dai due disgraziati. Allora gli dicono, senza minacce, con buona maniera, che si metta a memoria se non si trovò in Milano nel tal tempo, nel tal altro: risponde ogni volta di no, rapportandosi sempre alla sua prima risposta. Vengono alle persone, e ai luoghi. Se aveva conosciuto un Fontana bombardiere: era il suocero del Vedano, e il Baruello l'aveva nominato come uno di quelli che s'eran trovati al primo abboccamento. Risponde di sì. Se conosceva il Vedano: di sì ugualmente. Se sa dove sia la Vetra de' Cittadini e l'osteria de' sei ladri: era lì che il Mora aveva detto esser venuto il Padilla, condotto da don Pietro di Saragozza, a fargli la proposta d'avvelenar Milano. Rispose che non conosceva né la strada, né l'osteria, neppur di nome. Gli domandano di don Pietro di Saragozza: questo non solo non lo conosceva, ma era impossibile che lo conoscesse. Gli domandano di certi due, vestiti alla francese; d'un cert'altro, vestito da prete: gente che il Baruello aveva detto esser venuti col Padilla all'abboccamento sulla piazza del castello. Non sa di chi gli si parli.Nel secondo esame, che fu l'ultimo di gennaio, gli domandan del Mora, del Migliavacca, del Baruello, d'abboccamenti avuti con loro, di danari dati, di promesse fatte; ma senza parlargli ancora della trama a cui tutto questo si riferiva. Risponde che non ha mai avuto che far con costoro, che non gli ha mai nemmen sentiti nominare; replica che non era a Milano in que' diversi tempi.Dopo più di tre mesi, consumati in ricerche dalle quali, come doveva essere, non si cavò il minimo costrutto, il senato decretò che il Padilla fosse costituito reo con la narrativa del fatto, pubblicatogli il processo, e datogli un termine alle difese. In esecuzione di quest'ordine, fu chiamato ad un nuovo ed ultimo esame, il 22 di maggio. Dopo varie domande espresse, su tutti i capi d'accusa, alle quali rispose sempre un no, e per lo più asciutto, vennero alla narrativa del fatto, cioè gli spiattellarono quella pazza novella, anzi quelle due. La prima, che lui costituto aveva detto al barbiere Mora, vicino all'hostaria detta delli sei ladri, che facesse un ontione... et che dovesse prender la detta ontione, et andar a bordegare (impiastrare); e che, in ricompensa, gli aveva dato molte doppie; e don Pietro di Saragozza, per suo ordine, aveva poi mandato il detto barbiere a riscotere altri danari dai tali e tali banchieri. Ma questa è ragionevole in paragon dell'altra: che esso Sig. Constituto aveva fatto chiamar sulla piazza del castello Stefano Baruello, gli aveva detto: buon giorno, Sig. Baruello; è molto tempo che desideravo parlar con voi; e, dopo qualche altro complimento, gli aveva dato venticinque ducatoni veneziani, e un vaso d'unguento, dicendogli ch'era di quello che si faceva in Milano, ma che non era perfetto, e bisognava prendere delli ghezzi et zatti (de' ramarri e de' rospi) et del vino bianco, e metter tutto in una pentola, et farla bollire a concio a concio (adagino adagino), acciò questi animali possino morire arrabbiati. Che un prete, qual viene nominato per Francese dal detto Baruello, e era venuto in compagnia del costituto, aveva fatto comparire uno in forma d'huomo, in habito di Pantalone, e fattolo al Baruello riconoscere per suo signore; e, scomparso che fu, il Baruello aveva domandato al costituto chi era colui, e quello gli aveva risposto ch'era il diavolo; e che, un'altra volta, lui costituto aveva dati al Baruello degli altri danari, e promessogli di farlo tenente della sua compagnia, se l'avesse servito bene.A questo punto, il Verri (tanto un intento sistematico può far travedere anche i più nobili ingegni, e anche dopo che hanno veduto) conclude così: "Tale è la serie del fatto deposto contro il figlio del castellano, la quale, sebbene smentita da tutte le altre persone esaminate (trattine i tre disgraziati Mora, Piazza e Baruello, che alla violenza della tortura sacrificarono ogni verità), servì di base a un vergognosissimo (74) reato. " Ora, il lettore sa, e il Verri medesimo racconta che, di questi tre, due furon mossi a mentire dalle lusinghe dell'impunità, non dalla violenza della tortura.Sentita quell'indegnissima filastrocca, il Padilla disse: di tutti questi huomini che V. S. mi ha nominato, io non conosco altro che il Fontana et il Tegnone (era un soprannome del Vedano); et tutto quello che V. S. ha detto che si legge in Processo per bocca di costoro, è la maggior falsità et mentita che si trovasse mai al mondo; né è da credere che un Cavagliero par mio havesse, né trattato, né pensato attione tanto infame come è questa; et prego Dio et sua Santa Madre, se queste cose sono vere, che mi confondano adesso; et spero in Dio che farò conoscere la falsità di questi huomini, et che sarà palese al mondo tutto.Gli replicarono, per formalità e senza insistenza, che si risolvesse di dir la verità; e gl'intimarono il decreto del senato che lo costituiva reo d'aver composto e distribuito unguento venefico, e assoldato de' complici. Io mi meraviglio molto, riprese, che il Senato sij venuto a resoluttione così grande, vedendosi et trovandosi che questa è una mera impostura et falsità, fatta non solo a me, ma alla Giustitia istessa. Come! un huomo di mia qualità, che ho speso la vita in servitio di Sua Maestà, in diffesa di questo stato, nato da huomini che hanno fatto l'istesso, havevo io da fare, né da pensar cosa che a loro, né a me portasse tanta nota et infamia? et torno a dire che questo è falso, et è la più grande impostura che ad huomo sij mai stata fatta.Fa piacere il sentir l'innocenza sdegnata parlare un tal linguaggio; ma fa orrore il rammentarsi l'innocenza, davanti a quegli uomini stessi, spaventata, confusa, disperata, bugiarda, calunniatrice; l'innocenza imperterrita, costante, veridica, e condannata ugualmente.Il Padilla fu assolto, non si sa quando per l'appunto, ma sicuramente più d'un anno dopo, poiché l'ultime sue difese furono presentate nel maggio del 1632. E, certo, l'assolverlo non fu grazia; ma i giudici, s'avvidero che, con questo, dichiaravano essi medesimi ingiuste tutte le loro condanne? giacché non crederei che ce ne siano state altre, dopo quell'assoluzione. Riconoscendo che il Padilla non aveva punto dato danari per pagar le sognate unzioni, si rammentaron degli uomini che avevan condannati per aver ricevuto danari da lui, per questo motivo? Si rammentarono d'aver detto al Mora che una tal cagione ha più del verisimile... che non è per hauer occasione di vendere, lui Constituto il suo elettuario, et il Commissario d'haver modo di più lavorare? Si rammentarono che, nell'esame seguente, persistendo lui a negarla, gli avevan detto che si trova pure essere la verità? Che avendola negata ancora, nel confronto col Piazza, gli avevan data la tortura, perché la confessasse, e un'altra tortura, perché la confessione estorta dalla prima diventasse valida? Che, d'allora in poi, tutto il processo era camminato su quella supposizione? Ch'era stata espressa, sottintesa in tutte le loro interrogazioni, confermata in tutte le risposte, come la cagione finalmente scoperta e riconosciuta, come la vera, l'unica cagion del delitto del Piazza, del Mora, e poi degli altri condannati? Che la grida pubblicata, pochi giorni dopo il supplizio di que' due primi, dal gran cancelliere, col parer del senato, li diceva "arrivati a stato tale d'empietà, di tradir per danari la propria Patria"? E vedendo finalmente svanir quella cagione (giacché nel processo non s'era mai fatto menzione d'altri danari che di quelli del Padilla), pensarono che del delitto non rimanevano altri argomenti che confessioni, ottenute nella maniera che loro sapevano, e ritrattate tra i sacramenti e la morte? confessioni, prima in contradizion tra loro, e ormai scoperte in contradizion col fatto? Assolvendo insomma, come innocente, il capo, conobbero che avevan condannati, come complici, degl'innocenti?Tutt'altro, almeno per quel che comparve in pubblico: il monumento e la sentenza rimasero; i padri di famiglia che la sentenza aveva condannati, rimasero infami; i figli che aveva resi così atrocemente orfani, rimasero legalmente spogliati. E in quanto a quello che sia passato nel cuor de' giudici, chi può sapere a quali nuovi argomenti sia capace di resistere un inganno volontario, e già agguerrito contro l'evidenza? E dico un inganno divenuto più caro e prezioso che mai; giacché, se prima il riconoscerli innocenti era per que' giudici un perder l'occasione di condannare, ormai sarebbe stato un trovarsi terribilmente colpevoli; e le frodi, le violazioni della legge, che sapevano d'aver commesse, ma che volevan creder giustificate dalla scoperta di così empi e funesti malfattori, non solo sarebbero ricomparse nel loro nudo e laido aspetto di frodi e di violazioni della legge, ma sarebbero comparse come produttrici d'un orrendo assassinio. Un inganno finalmente, mantenuto e fortificato da un'autorità sempre potente, benché spesso fallace, e in quel caso stranamente illusoria, poiché in gran parte non era fondata che su quella de' giudici medesimi: voglio dire l'autorità del pubblico che li proclamava sapienti, zelanti, forti, vendicatori e difensori della patria.La colonna infame fu atterrata nel 1778; nel 1803, fu sullo spazio rifabbricata una casa; e in quell'occasione, fu anche demolito il cavalcavia, di dove Caterina Rosa, L'infernal dea che alla eletta stava,intonò il grido della carnificina: sicché non c'è più nulla che rammenti, né lo spaventoso effetto, né la miserabile causa. Allo sbocco di via della Vetra sul corso di porta Ticinese, la casa che fa cantonata, a sinistra di chi guarda dal corso medesimo, occupa lo spazio dov'era quella del povero Mora.Vediamo ora, se il lettore ha la bontà di seguirci in quest'ultima ricerca, come un giudizio temerario di colei, dopo aver tanto potuto sui tribunali, abbia, per loro mezzo, regnato anche ne' libri.fine capitolo VI. domani il settimo (e ultimo) capitolo