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Sarebbe davvero un’operazione di rimozione della memoria schiacciare la figura di Tomaso Staiti, il coraggioso e singolare uomo politico scomparso mercoledì notte a Milano a 84 anni, all’interno degli stereotipi del nostalgico o del fascistone o nel ricordo di alcuni episodi guasconi di cui fu protagonista. Tutt’altro emerge dalla sua biografia, tutt’altro è il suo autentico profilo politico. Intanto va detto subito che, solo a rileggere la stampa degli anni Ottanta – basterebbe uno sguardo alle collezioni dell’Europeo, dell’Espresso, di Repubblica, del Corriere, del Giornale di Montanelli – per rendersi conto che in quel decennio ricorrevano spesso nelle cronache i nomi di due deputati missini – appunto Staiti e Domenico Mennitti – oltre che di un ex parlamentare, Beppe Niccolai eletto alla Camera fino al ’ 76, che dimostravano capacità di interlocuzione con i giornalisti, non solo quelli della sala stampa di Montecitorio, ma anche con politici di altri orientamenti e intellettuali, anche di sinistra. Tanto per dire, Niccolai interloquiva normalmente e dialogava con Leonardo Sciascia e con Romano Bilenchi. Mennitti aveva stabilito relazioni stabili con colleghi radicali, socialisti e liberali oltre che avere un buon rapporto con la stampa. Ma era soprattutto Tomaso Staiti a primeggiare per la presenza sui giornali che, spesso, lo intervistavano e scrivevano delle sue svariate e continue iniziative politiche: si pensi solo alle sue denunce pubbliche degli scandali Anas, Nomisma o Sme. O alla sua adesione al gruppo trasversale di parlamentari per l’introduzione in Italia del sistema elettorale uninominale secco all’inglese.
Originario di una famiglia nobiliare siciliana da tempo in Piemonte – il suo nome completo era Tomaso Staiti di Cuddia delle Chiuse – i suoi esordi politici risalgono ai primi anni 70, negli anni delle piazze di Milano infuocate dagli scontri. E proprio nel ’ 70 viene eletto per la prima volta consigliere comunale nel capoluogo lombardo nelle liste del Msi, partito a cui si era iscritto a diciassette anni, nel 49. Ma il grande salto avviene nel 79 quando Staiti viene eletto alla Camera dei deputati e anche nella segreteria nazionale del partito, benché già da allora manifestasse posizioni molto critiche nei confronti del leader indiscusso Giorgio Almirante e della gestione nostalgica e da ghetto del partito. «Ho fatto il deputato a Roma – ha ricordato in un’intervista – e mi davano 150 mila lire per ogni giorno che stavo a Roma e un milione per i collaboratori, di cui dovevo presentare i contratti al parti- to…». Alto, sempre elegante, di più che bella presenza, Tomaso era soprattutto un uomo di mondo, non aveva fatto – come tanti – la classica politica di sezione finalizzata al carrierismo partitico.
A scorrere i nomi citati nel suo libro autobiografico Confessione di un fazioso (Mursia, 2007) emerge tutto il suo vissuto precedente al Parlamento: Marisa Allasio, Gigi Rizzi, Gualtiero Jacopetti, Cinci Bergamo, Calvo e Pierfranco di Bergolo, Capucine, Linda Christian, Marta Marzotto, Walter Chiari, Chet Baker, Dado Ruspoli... Il contesto in cui il giovane Staiti si muove è questo, accanto all’università di Pavia – dove si laurea in geologia ed è attivista del Fuan, l’organizzazione degli universitari missini – e una grande passione per l’impegno politico all’interno della corrente missina guidata da Pino Romualdi. Nei primi anni Ottanta, è considerato, erroneamente, un thatcheriano dagli almirantiani duri e puri a causa della sua richiesta di innovazione e apertura. E nel 1984 rompe gli indugi e – con un discorso congressuale di duro attacco ad Almirante e all’almirantismo – si candida alla segreterie del partito ottenendo i voti dei firmatari della mozione “Segnali di Vita”, la quale faceva riferimento all’ex parlamentare Beppe Niccolai e ai due giovani dirigenti Umberto Croppi e Peppe Nanni. Fu la rottura dell’unanimismo e dei giochi fatti a tavolino, uno scossone per un partito immobilizzato dalla retorica e dai miti incapacitanti nei confronti del gioco politico. Nell’arco di un paio d’anni, Staiti e i suoi amici si avvicinano a Mennitti e danno corpo a una corrente, “Proposta Italia”, che si fa notare per l’apertura all’esterno e la volontà di rimettere in gioco le forze vive di quel partito. Inevitabile l’alterità con la maggioranza almirantiana che, nell’ 88, proseguirà il suo controllo del partito con il giovane Gianfranco Fini sulla base dei soliti giochi di vertice all’insegna della cooptazione. «La decisione di far diventare Fini segretario – ha ricordato Staiti – fu presa a Taormina in un albergo di Salvatore Ligresti, presenti il senatore Antonino La Russa, suo figlio Ignazio, Giorgio Almirante e Pinuccio Tatarella».
Così, nel gennaio 1990, Staiti contribuisce all’elezione di un nuovo segretario, Pino Rauti, e diventa responsabile esteri del partito. Ma, a parte l’iniziativa da lui sponsorizzata, di una riunione della segreteria del partito a Berlino per sancire la rottura al Parlamento europeo con il Front National e con i Republikaner tedeschi perché forze xenofobe, la sua esperienza da ministro degli Esteri missino durerà soltanto un anno.
Dopo lo scandalo Gladio, e per l’assenza di una denuncia esplicita da parte del Msi, e soprattutto in seguito all’iniziativa di Rauti di sostenere l’intervento italiano nella prima guerra contro Saddam Hussein, Staiti esce dalla maggioranza. Forma la cosiddetta “Corrente del Golfo”, una componente minoritaria di cui era l’unico parlamentare e che si espresse in una serie di iniziative pubbliche contro la guerra. Passeranno altri pochi mesi e, con il ritorno di Gianfranco Fini e della sua linea politica nel Msi, Staiti e un gruppetto di suoi amici lasceranno il partito: nel documento di strappo scriveranno che il Msi aveva esaurito ogni possibile funzione politica e che, loro, ci si metteva in mare aperto alla ricerca di nuove sintesi. Staiti rimarrà nel Gruppo misto fino al 1992, stabilendo un significativo rapporto con Marco Pannella e col Partito radicale. Purtroppo, alle elezioni del 5 aprile gli dicono che non c’è possibilità di inserirlo in lista in quanto ultimo arrivato. Benché fuori del Parlamento, fino al 2011 non rinuncia mai alla passione politica e solo negli ultimi anni si era ritirato a vivere nella sua villa sul lago Maggiore. Certo, ricordava sempre quando – nei primi anni Settanta – intravide in un night un costruttore non molto alto che non gli fece un’ottima impressione e che gli dissero si chiamasse Silvio Berlusconi.
Staiti, in alternativa al berlusconismo, nell’ultimo ventennio, di attraversamenti ne ha poi provati tanti, pure nella Lega di Bossi e anche tra i partititi della destra radicale, ma sempre con la delusione e l’inevitabile fuoriuscita. Di stabile è invece il rapporto con il giornalista Massimo Fini e la continua partecipazione a dibattiti, convegni, appuntamenti culturali. Politicamente, su tutto, ferma e costante l’interlocuzione e l’amicizia con Marco Pannella, il quale invitava Staiti nelle riunioni radicali di riflessione a porte chiuse. E proprio in ambito radicale, nella prima metà degli anni Novanta, l’ex parlamentare missino – da sempre garantista – è stato uno dei fondatori della Lega internazionale di parlamentari e cittadini per l’abolizione della pena di morte nel mondo entro il 2000, poi diventata Nessuno Tocchi Caino. Così come, sempre in quel decennio, più volte il capogruppo della Rete nel consiglio comunale di Milano, Giovanni Colombo, faceva l’esempio di Tomaso Staiti per fornire un modello plastico di impegno politico disinteressato, coraggioso ed efficace. Altro che nostalgico e fascistone, insomma. «Vorrei che invece di destra e sinistra, qualcuno provasse a dire “sinestra”…», scrisse Staiti in una bella lettera inviata al Secolo d’Italia degli “strappi”, nel novembre del 2011. Un’espressione, questa, che a nostro avviso rende al meglio la sua personale ricerca di una nuova sintesi politica oltre gli schianti e le lagne di quest’inizio di millennio.