Caro Direttore,

Alla soglia dei sessant’anni sono ancora qua, seduto sul mio scooter, a correre sui sanpietrini bagnati di via Giulia per cercare di arrivare in tempo in udienza al Consiglio di Stato.

Il primo motorino me lo comprò mio padre che avevo 16 anni: un Sì carta da zucchero (che, poi, chi l’ha mai vista la carta da zucchero azzurra?). Era un trabiccolo con un sellino cortissimo sul quale ci sedevamo in due, costringendoci ad una, non sempre gradita, intima conoscenza.

Aveva due ruote poco più grandi di quelle di una bicicletta e, dopo averci montato il Pollini (altrimenti eri uno sfigato), sfrecciavi a 60/ 70 all’ora, rigorosamente senza casco, in mezzo al traffico. Sopravvissuto (letteralmente) a quegli anni, dopo l’Università provai, senza successo, a usare l’automobile. Ma parcheggiare in Prati era un’utopia più grande della realizzazione di uno Stato di diritto nel nostro paese. Così un amico mi vendette un Booster nero, usato, con le ruote a carrarmato. Sembravo uno scippatore in giacca e cravatta, con la borsa di pelle piena di fascicoli sul pianale, tra le gambe.

Da praticante prima e da giovane avvocato poi, passavo le mie giornate tra il Tribunale civile di viale Giulio Cesare (allora ancora sede provvisoria, allestita in fretta e furia dopo il crollo dei mezzanini del Palazzaccio, poi diventata definitiva), il Tar (che stava a Piazza Nicosia, sopra la DC romana) e il Consiglio di Stato (a Palazzo Spada). Se ti capitava ( e capitava spesso) di avere tre udienze in tre posti diversi, il motorino era l’unica possibile soluzione. Era. Ma è così ancora oggi, in una città che ha un rapporto a dir poco conflittuale con il concetto di TPL (trasporto pubblico locale).

È consueto paesaggio urbano lo spettacolo di almeno una decina di pseudo centauri, in scooter, che cercano di guadagnarsi lo spazio tra la linea dello stop e le strisce pedonali, al semaforo rosso. Vanno dai venti (anche di meno) ai sessant’anni (anche di più) e si guardano tra loro, in pietosa competizione, pronti a scattare al verde, tipo partenza della moto GP. Se fosse vivo Pinelli ci farebbe un quadro.

A marzo 1980, per ragioni familiari che non sto a spiegare, partecipai al viaggio inaugurale della linea A della metropolitana (Ottaviano – Cinecittà). L’avevano battezzata “A”, nonostante la “B” già esistesse con il nome di “ferrovia interrata E42”. Ero giovane, ingenuo e fiducioso. Mi feci ingannare dallo spirito dei tempi. D’altronde «l’aria vibrava delle nostre possibilità, infinite in quelle sere di primavera. Della nostra rabbiosa voglia di tutto». Io, più modestamente, sognavo

che avrei vissuto in una città con 6 linee di metropolitana, allora già programmate, che mi avrebbero permesso di raggiungere qualsiasi destinazione lavorativa o ludica, senza bisogno di un mezzo di trasporto proprio. Sognavo, appunto...

Adesso, che ho finito l’udienza, risalgo sul motorino, addobbato con una bella multa per divieto di sosta (non c’è pietà a Roma per chi lavora). Devo andare al Ministero delle Politiche Agricole (o della Sovranità Alimentare, come l’ha ribattezzato il Governo, ma si sa che le uniche riforme ad invarianza economica sono quelle dei nomi) dove ho appuntamento, per un accesso agli atti, tra dieci minuti. Passo per Piazza Venezia, ridotta ad un enorme cantiere. Stanno costruendo la fermata della metro C che viene pubblicizzata, in sontuosi rendering, come la più bella del mondo, musealizzando i preziosissimi reperti archeologici che in una città bimillenaria non puoi non trovare appena scavi.

I lavori finiranno, dicono i cartelli, nel 2032, cioè tra otto anni, salvo ritardi. E allora forse Roma avrà la sua terza linea di metropolitana: cinquantadue anni dopo la seconda. Mentre vengo fermato da un vigile per far passare un’infinita mandria di turisti che slalomeggia intorno al cantiere, diretta alla grande bellezza dei Fori, penso che, a differenza di tanti concittadini, non ce l’ho con Gualtieri che, come si dice da queste parti, “almeno ce sta a provà”. Ma se la politica fosse visione e prospettiva ( come dovrebbe essere), si potrebbe dire che, negli ultimi quarant’anni, a Roma sia stata cieca? Sarebbe qualunquismo affermare che la percentuale di assenteismo elettorale abbia spiegazioni più semplici di quelle che cercano di dare i politologi?

Intanto io mi godo la “libertà” su due ruote, cui sono costretto, e il mal di schiena che mi causa. Mentre salgo per via IV Novembre, sta cominciando a piovere...

Buon Natale,

Andrea Armati