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Simona Vinci ha esordito nel 1997 con Dei bambini non si sa niente, pubblicato da Einaudi Stile Libero, ottenendo un grande successo di pubblico e critica e suscitando - per via dell’argomento trattato: l’erotismo infantile - anche scandalo e polemiche. Dei bambini non si sa niente ha vinto il Premio Elsa Morante opera prima ed è stato tradotto in dieci Paesi, tra i quali gli Stati Uniti. Simona Vinci ha partecipato tre volte al Premio Campiello: la prima, nel 1999, con In tutti i sensi come l’amore, che si è piazzato nella cinquina finale; la seconda, nel 2003, con Come prima delle madri, arrivato secondo per una manciata di voti. Lo scorso marzo è uscito La prima verità, sempre per i tipi di Einaudi Stile Libero, che si è aggiudicato il Premio Campiello 2016.
'La prima verità' è dedicato a Stefano Tassinari, poeta, giornalista, scrittore, morto l’ 8 maggio 2012. Nell’epigrafe del libro ci sono i versi di una poesia di Ghiannis Ritsos, un poeta deportato a Leros. Che legame c’è, se esiste, tra follia e poesia?
Forse, l’esercizio a guardare da angolazioni diverse rispetto a quello che è genericamente considerato il “modo più adeguato” di guardare alle cose, tutte: sentimenti, persone, oggetti, forme, concetti. La capacità di addentrarsi in un mondo “altro” dove cambia completa- mente la sintassi rispetto a quella che si usa quotidianamente.
Lei ha scritto che «ogni storia è una storia di fantasmi», e che la scrittura è il medium che dà voce alle presenze che ti cercano per raccontare la propria storia: ha mai paura, quando scrive?
No. Ho paura quando non scrivo. Se scrivo vuole dire che sto bene, che sto facendo quello che mi interessa di più fare, che sto cercando di comunicare con ogni possibile altro da me. Paradossale, la scrittura: sei concentrato dentro, ma proiettatto fuori.
Su Angela, una delle protagoniste, sbarcata a Leros per ritrovare la propria storia personale, scrive: «Non avvertiva i confini del suo corpo e le sue mani e i suoi piedi ripetevano i gesti quotidiani come se lei non ci fosse. Non le era mai successo di sentirsi cosí strana, cosí poco presente». È un libro sul potere e le fragilità della mente, e tuttavia il fantasma - nel senso etimologico del termine - più spaventoso, più presente e più potente è il corpo.
Non credo ci sia differenza tra corpo e mente, non esiste questa dicotomia, lo diceva già benissimo Nietzsche: «Ma il risvegliato e il sapiente dice: corpo io sono in tutto e per tutto, e null’altro; e anima non è altro che una parola per indicare qualcosa del corpo. Il corpo è una grande ragione» ( Dei dispregiatori del corpo). Non a caso, è sul corpo che il potere agisce per avere accesso alla mente.
La normalità non esiste. Leggendo il libro, la sensazione più netta è che non ci sia differenza tra gli abitanti di Leros e noi, i sani.
Ci sono stati tempi e luoghi, e ci sono ancora, e ci saranno, purtroppo, in cui determinati lati del carattere, reazioni ad eventi tragici, periodi di buio come lutti, depressioni, tristezze, allegrie esagerate, verranno considerate, così come vengono considerate, delle anomalie da tenere sotto controllo, sedare, sopprimere, allontanare. L’importante sarebbe comprendere che il “funzionamento” relativamente buono di un individuo può anche fondarsi su queste “diversità” e convivere con esse. Io non conosco una sola persona “normale”, conosco persone che funzionano relativamente bene e altre invece no.
L’isola di Leros è stata il luogo in cui non si deportavano solo i pazienti psichiatrici considerati incurabili ma anche i dissidenti politici. Questa vicinanza forzata mi fa venire in mente un pensiero forse azzardato: bisogna essere pazzi per fare politica.
Per farla credendoci veramente sì, per essere dei militanti contro bisogna avere un grande coraggio, un grande idealismo, un certo sprezzo di sé o meglio la capacità di far dono delle proprie risorse psichiche e fisiche e di tempo, ma anche la capacità di fare però i conti con la realtà delle dinamiche di potere. Un politico di professione è un grande mediatore e non credo che la follia sia un tratto del carattere particolarmente utile o apprezzabile, in questo senso.
La storia d’amore tra Angela, giovane ricercatrice italiana, e Lina, è un ricongiungimento tra passato e presente, tra mente e corpo, tra fantasmi e scrittura.
Quella storia è nata da sé, mentre scrivevo, ho immaginato queste due ragazze, ciascuna con i propri fantasmi da inseguire, ritrovarsi in un posto in cui saltano tutti i loro parametri e sono costrette, ognuna a suo modo, a fare i conti con la propria fragilità: era inevitabile che tra loro accadesse qualcosa che va oltre l’amicizia, un modo di “toccarsi” che non ha a che fare con l’orientamento sessuale, ma con il riconoscere, nel buio di un altro essere umano, il proprio.
Qual è stato il nucleo primigenio del libro, il sasso nello stagno attorno al quale si è irradiato il resto?
La storia di Teresa. Avevo questa immagine di una ragazza che entra nell’acqua di un mare invernale. Una ragazza che ha subito abusi considerati in qualche modo “normali”, inevitabili in un certo tempo e per una certa cultura e che non riesce però a considerarli tali e a superarli. Ho cominciato a fare ricerche perché volevo scrivere una storia di disagio psichico e volevo ambientarla su un’isola, quando ho “incontrato” la vicenda di Leros ho capito che era quello il luogo, quello il nucleo. Ci ho messo molti anni a comprendere che quel mio andare lontano ( Grecia, Sierra Leone) era un modo per riavvicinarmi a casa e riuscire a scrivere di me, del mio paese, di ciò che ho conosciuto da vicino, ma riuscendo a trasformarlo in “altro da me”. Le pagine in cui Teresa approda sull’isola di Leros sono le prime che ho scritto in assoluto. L’io narrante, invece, è arrivato alla fine.
Ora Leros non è più il lager di un tempo. Ma dal mare, invece che pazzi e dissidenti politici, arriva qualcos’altro: profughi, uomini, donne e bambini che fuggono dalla guerra e spesso toccano terra già morti. Sono i nostri fantasmi.
Però sono reali. Sono persone con nomi e cognomi, con legami familiari e di amicizia spezzati, persone recluse il un limbo per un tempo indefinito e dovremmo sforzarci di non sentirli come “presenze generiche” ma proprio come quelle persone lì, in questo preciso momento, a vivere una vita di sofferenza indicibile, perché l’assenza di un’idea qualunque di futuro è spaventosa.
A Roma, nei primi giorni di Ottobre, è stato sgomberato il Baobab, un centro di accoglienza gestito solo da volontari, che si occupava di prestare assistenza ai profughi. Quasi tutte le donne che arrivavano al Baobab erano incinte ed erano state violentate. Gli uomini avevano i piedi piagati. Soli, affamati, ora dormono per terra. Da cosa stiamo fuggendo noi sani, noi normali, noi che costruiamo muri per difenderci?
Dalla paura di poter diventare come loro. Dal contagio. Dal terrore che ci fa l’idea di perdere ciò che abbiamo, i nostri piccoli comodi privilegi, e che siamo disposti a difendere contro chiunque vagamente minacci di portarcelo via. Il lavoro strisciante di razzismo fatto da tanti politici gioca proprio su queste paure, se poi si vanno a fare veramente i conti ( intendo conti statistici) si capisce quanto i numeri dell’immigrazione siano ridicoli e quanto sarebbe meglio lavorare sull’inevitabile: la gente esiste, la gente si sposta ( ha il diritto sacrosanto di farlo), è la storia dell’umanità e non c’è muro che possa fermarla.
Il libro d’esordio si intitola “Dei bambini non si sa niente”: in cui si esplora l’universo dei bambini e dell’erotismo infantile con una tenerezza disarmante. “La prima verità” può essere considerato, in un certo senso - ad esempio l’incipit: l’io narrante resta colpito dalla foto di una bambina sottoposta a elettrochoc - il prosieguo ' naturale', o semplicemente un’altra ' puntata', o anche il culmine di questo viaggio nel mondo dei bambini?
I bambini saranno sempre in tutto quello che scrivo, ci sono sempre stati, per due motivi di fondo: primo, che per un narratore lo sguardo bambino permette di osservare il mondo senza giudicarlo, come se ogni cosa accadesse per la prima volta, ti permette crudeltà e innocenza al tempo stesso; secondo: io non amo il mondo degli adulti, mi annoia profondamente, sono rimasta bambina molto a lungo, solo ora, a 46 anni comincio ad accettare le “regole” di un mondo che per lunghissimo tempo ho rifiutato e combattuto.
L’ultimo libro è dedicato, oltre che a Stefano Tassinari, anche a su figlio Ettore. Qual è la sua opinione sulla “gestazione per altri”, la cosiddetta maternità surrogata?
Tendenzialmente sono a favore, anche se lavorerei molto di più sulle adozioni, visto che di bambini orfani e soli e bisognosi ce ne sono a caterve nel mondo. Figlio non è soltanto il figlio “biologico” con i tuoi geni, ma è la creatura che cresci, nutri ed educhi alla vita, la creatura che ami. Mi pare che l’ossessione per la maternità e/ o paternità biologica abbia un forte lato narcisisti-co, detto questo: ognuno ha diritto di fare quello che desidera. Non giudico neppure una donna che decida, per motivi suoi che possono essere economici oppure di filantropia totale di mettere per nove mesi il suo corpo a servizio di qualcuno o qualcuna. L’importante è che non diventi un mero commercio, ma sia regolamentata in modo sicuro e serio.
È cambiata qualcosa dopo la vittoria del Premio Campiello?
Ne sono certamente felice perché non me l’aspettavo e perché oggi è molto difficile, per un libro, durare più di un paio di mesi, e il Campiello dona una grande visibilità e ne allunga la vita. I due mesi precedenti la proclamazione sono stati una girandola di incontri in giro per l’Italia con la Cinquina, molto stancante ma anche molto bella. Era la terza volta che un mio libro partecipava alla competizione e sono contenta, a posteriori, di aver vinto adesso, a 46 anni e con questo libro. Ho vinto anche il Premio pozzale Luigi- Russo, il Premio Siderno, il premio Vigevano e il bellissimo premio Volponi. Non mi posso certo lamentare. Non immaginavo che un libro del genere potesse trovare tanti lettori.
Gli scrittori sono pazzi?
Chi non lo è, almeno un po’? Fai la stessa domanda a un salumiere. A parte gli scherzi, sicuramente l’esercizio della scrittura presuppone un certo grado di introversione e una propensione all’immaginazione e alla creazione di realtà parallele. A volte si rischia di perdere il contatto con il qui e ora. Ma solo a volte, dài.