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Una Rossana Rossanda “inedita” quella che potrete leggere nel libro che esce oggi Questo corpo che mi abita, Bollati Boringhieri editore. Il volume è curato dalla scrittrice e femminista Lea Melandri che ha raccolto diversi articoli scritti da Rossanda per la rivista “Lapis”. Si parla di amore, politica, sessualità: la fondatrice del manifesto si mette in gioco, si confronta con le sue amiche femministe, tratteggia un ritratto in qualche modo intimo.
Nell’articolo uscito sulla rivista “Lapis” al suo primo numero - “Autonomia di un io politico” -, Rossana Rossanda fa riferimento alla recensione che avevo fatto del suo libro, Anche per me, pubblicato da Feltrinelli nello stesso anno. La definisce una «lettura amorosa, ravvicinata», pur riconoscendo il mio modo «differente» di fondare l’io, l’interiorità.
Ci eravamo conosciute da pochi anni, dopo un incontro/ scontro di scritture - polemico da parte mia, lusinghiero da parte sua- sul manifesto, ma il rapporto tra noi era già quello che Rossana riteneva appartenesse all’amicizia: l’interesse per l’altro o l’altra, per quello che è, l’attenzione a come ci riflette, accetta o respinge, ci fa pensare. Quando ne aveva scritto nel libro, il riferimento era in particolare all’amicizia fra due donne, «un fatto nuovo, sconcertante, in quanto luogo in cui esse potevano ricostituire un’identità mutante, ribelle ai vecchi rapporti di dipendenza, famigliari o di coppia».
«… l’amicizia è un rapporto che presume autonomia delle due persone, una struttura forte, presente o possibile del loro io (…) Passione viene da patimento, sofferenza, è un amore che si confessa disperatamente bisognoso per sanare sé, ricostituirsi da lontane ferite, rassicurarsi da lontane negazioni, essere garantito nella domanda ultima: ma io conto a sufficienza per qualcuno da essere certo, certa di esistere? Per qualcuno? Sbaglio: per quell’uno, o una, da cui solo può venirmi la risposta (…) quella è passione. Nell’amicizia questa domanda terribile, demolitoria o risanatrice, non c’è, si è amici quando l’altro, l’altra, è assunto e prezioso per quel che è, e non per quel che ci dà o gli domandiamo (…). Come poteva la donna conoscere l’amicizia? Lei che difficilmente poteva dire di possedere anche se stessa, e prima di sé doveva mettere nella scala dei rapporti il marito, il figlio, il padre? Lei che non era libera di disporre del suo tempo né del suo futuro? E’ della passione finire, dell’amicizia durare. E così due amiche sono anche il comporsi di una coscienza di sé finora rimasta oscura o poco detta».
Il lungo percorso femminista che ho alle spalle mi fa dire che forse i confini tra amore/ passione e amicizia non sono così netti, che lo scontro di potere tra i sessi, attraversando la vita intima, ha lasciato purtroppo segni anche nella relazione tra simili. Ma è vero che la nostra amicizia, cominciata allora nel confronto di vite, esperienze politiche molto diverse, ci ha accompagnato fino ad oggi, ed è diventata, per entrambe, quel “tranquillo deposito di sé” di cui Rossana è tornata a parlare nella conversazione con Manuela Fraire sul lutto e la perdita. Del libro che ci ha fatto incontrare mi avevano attratto innanzi tutto il titolo e la Prefazione: parole che si erano fino allora pensate come il sostituto di un gesto, estrema trincea di pensieri destinati a perdersi nella coscienza collettiva, come strumenti di trasformazione del mondo, tornavano sulla carta per trascrivere vissuti, emozioni, memorie, per dire delle “acque profonde e insondate” che si era lasciato dietro un corpo fattosi “oscuro” quando aveva voluto disporsi “sull’orizzonte smisurato della storia”. Di quell’apprendistato politico, che era stato per lei e per molti della sua generazione la guerra, Rossana tornerà a parlare più volte anche su “Lapis”, e sempre con l’immagine di lei giovanissima nella sala del Tesoro, odorosa di cera, nel Cortile della Rocchetta a Milano, dove si era costruita “una sorta di Warburg”, quando i bombardamenti sulla città avevano messo fine a ogni “privato splendido isolamento”. La “via del dovere”, l’imperativo categorico che si era aperto allora sopra di lei, come il famoso cielo stellato, non le avrebbe comunque impedito di coltivare la bellezza che c’è nella solitudine del sapere, l’amore per l’arte, la letteratura, la filosofia, il cinema e, più in generale i tesori di cultura confinati per secoli nella “persona”, e che il femminismo andava scoprendo.
Gli scritti raccolti nel libro rispondevano perciò, per un verso al passato - alle “cose squisite” che non avrebbe mai abbandonato -, per l’altro all’incontro con donne conosciute a volte soltanto attraverso le pagine di un libro, che le avevano reso abituale la “frequentazione dei precordi” e qualche “scorreria” nei territori del pensare e del sentire rimasti per lei a lungo “privati”. Vinta l’indiscrezione del raccontarsi, consentita a suo avviso solo a chi possedeva il dono della forma, e abbandonato il modo impersonale di scrittura proprio di chi si considerava solo un “segmento parlante di una storia comune”, Rossana ammetteva di aver cominciato anche a vedere diversamente le cose del mondo, e a porsi “non senza imbarazzo” qualche problema di politica femminista.
Guardato dall’orizzonte di chi non aveva mai smesso di portare attenzione sia alle biografie che alla storia, pur tenendole separate, il femminismo si presentava come il “germe” di una grande il tracciato “immenso” di una condizione che attraversava l’individuo e la specie, la biologia e la storia, l’esperienza dei singoli e la vita sociale. Ma con l’impazienza della donna che aveva visto comparire dietro le macerie di una guerra dolori e ingiustizie intollerabili, avrebbe voluto che la rivoluzione femminista «cadesse con tutto il suo peso dentro il mondo e come un bisturi lo scavasse per rovesciarne il corso». Nell’amore, come nella lotta politica, avremmo dovuto spaccare le illibertà dell’uno e dell’altra. Per aver risposto all’interrogativo della guerra diventando comunista, accettando quella miseria che le era comparsa davanti ineluttabile e totale, Rossana si era definita “luciferina”. Ma “luciferina” mi era sembrato allora di ritrovarla nel modo con cui incalzava un movimento ai suoi inizi perché e dai fantasmi che di lei l’uomo aveva prodotto.
Che cosa le rimproveravo dunque tanto da spingerla, nel suo primo scritto su “Lapis”, a fare una difesa così accorata del suo “io politico”? Forse il fatto che non riuscisse a vedere il suo essere donna prima di ogni altra cosa, che considerasse deludente sostituire la ricerca di sé al “piano di battaglia”, che provasse tanto interesse per la “pazienza nel patimento”, richiamo per me inquietante all’abnegazione femminile.
(...) Nella solitudine della sua Parigi, come davanti a un mare “dai bellissimi grigi invernali”, Rossana avrebbe voluto trovare pensieri e parole che l’avvicinassero alle donne, se non fosse intervenuto un evento di grande portata politica ad aprire, tra “il profondo e la storia”, una frattura difficil- mente componibile. Era il 1989 e la disgregazione dei regimi comunisti, la caduta di una dottrina di cui per un altro versante anche lei si era considerata vittima, la esponeva ancora una volta alla critica di aver sacrificato la sua vita a un “colpevole errore”. Le stesse donne che guardavano con affetto il suo ruolo di “androgino simpatico”, capace di muoversi tra poli opposti, non sembravano accorgersi di quanto fosse profondo, doloroso - quasi una sorta di schizofrenia - il doversi “dividere in due”. Si trattava di trovare nessi tra la liberazione da un dominio che aveva segnato le vicende più intime - il corpo, la sessualità, la maternità -, e un sistema sociale economico e politico fondati sulle leggi del denaro e dell’inuguaglianza.
«Io non sono due - concludeva Rossana -, sono una sola».
E “intera”, al di là delle sue luciferine “manie totalizzanti”, Rossana ha dimostrato di poterlo essere nei pochi, lucidissimi articoli che ha regalato a “Lapis”.
«A me basta e avanza il profilarsi sociale della divisione dei sessi, e il problema teorico che mi comporta: come si sovrappongono e separino le attuali contraddizioni di classe, e quelle dei poteri ineguali in economia e in politica, e una contraddizione che valica il capitalismo e le sue forme, la cultura e le sue forme, affina e scompare, ed è la contraddizione tra maschio e femmina. C’è sicuramente un sovrapporsi, nel senso attivo di scambiarsi e rafforzarsi, e sicuramente un separarsi, e proverò rapidamente a dirlo, perché è il reticolo, temo, sottostante all’insieme dei miei interventi» .
Nonostante alcuni fraintendimenti - la mia critica al dualismo sessuale e la ricerca di nessi scambiata talvolta da Rossana per fusionalità -, la nostra amicizia non avrebbe potuto essere così solida e duratura, se non ci fossimo trovate particolarmente vicine nella critica alle inclinazioni essenzialistiche di parte del femminismo. «Non ci si libera - aveva scritto nel primo articolo esaltando la differenza, o pensando che il dominio patriarcale abbia cancellato una sostanza iniziale, femminile, da far emergere». Allo stesso modo, concordavamo sul fatto che non esisteva un sapere legato a una “percezione specifica del corpo” che le donne avrebbero posseduto più degli uomini, in virtù della loro capacità generativa: identificate col corpo, destinate ad averne cura e a condividerne esaltazione immaginaria e insignificanza storica, ma pur sempre un corpo a cui altri aveva dato nomi e forme. Il sapere del corpo - scriveva Rossana - è in realtà «una precettiva, un modello del corpo, che è esterno all’esperienza immediata e tende a farsi esperienza esso stesso. Non è un sapere, è un fantasma compatto e drammatico». La coazione simbolica, le identità, i ruoli di “genere”, considerati “naturali”, riguardavano uomini e donne, ma era soprattutto la donna - sottolineava Rossana, a essere definita dall’ apparire, dal suo essere prima di tutto vista, in funzioni esterne come la maternità e la seduzione.
Il radicamento di questo “diaframma culturale” - “due corazze” sovrapposte ad altre interdizioni legate alla conoscenza del corpo- appariva, sia a me che a Rossana, così profondo, primordiale e drammatico, da segnare inconsapevolmente per secoli il destino della maggior parte delle donne.