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A quasi un anno dal clamoroso errore del Papeete Matteo Salvini vive la sua ora più difficile. Nella destra Giorgia Meloni, in ascesa da mesi, gli contende la leadership. Nel suo stesso partito Zaia, uscito trionfante dalla crisi Covid, è di fatto un competitor non dichiarato. Nella scelta dei candidati per le Regionali del 20 settembre il suo passo indietro è stato la condizione necessaria e sufficiente per garantire l’unità della coalizione.
Ma tutto questo, in fondo, è ancora il meno. Il problema che il leader leghista deve affrontare oggi e più profondo e più complessivo. Non è circoscritto a una fase difficile o a una contingenza specifica: chiama in causa la sua intera strategia e dunque lo mette, per la prima volta da quando ha preso in mano il timone di una allora disastrata Lega, a rischio di sconfitta non in una battaglia ma nella guerra. Quella strategia, anzi la vera e propria rivoluzione che Salvini aveva operato nella Lega, era il superamento del nordismo bossiano: la trasformazione della Lega Nord in Lega nazionale.
È impossibile, per chiunque ricordi i connotati della Lega di Umberto Bossi, immaginare una rivoluzione copernicana più radicale. Dagli esordi alla fine degli anni ’’ 80 sino agli anni del governo nazionale con Berlusconi passando per la pittoresca fase secessionista, il Carroccio non aveva mai reciso le sue radici di movimento nordista. Cambiava a seconda delle fasi la tattica, mai però l’impostazione strategica. L’obiettivo di Bossi è sempre stato un federalismo tale da assicurare alle Regioni del nord un’autonomia confinante con la separazione.
Salvini ha invertito la rotta. Ha ripreso la retorica truculenta dell’allora Senatur quasi alla lettera, ma rivolgendola contro gli immigrati invece che contro i terroni o contro Roma ladrona. Ha sostituito il ' nordismo' con una sorta di nuovo nazionalismo. Si è rivolto a quell’elettorato del Sud che per il Carroccio di Bossi e maroni era per definizione off limits. Un anno fa si sarebbe detto che l’azzardo era stato premiato da un successo superiore alle più rosee aspettative. Oggi non è più così.
Le manifestazioni come quella di Mondragone, in sé, hanno significato relativo. Per boicottare un comizio ci vuole poco ed è compito che anche una sparuta minoranza può assolvere egregiamente. Il segnale, se paragonato alle folle esaltanti dell’anno scorso, è però eloquente. Soprattutto perché l’antisalvinismo non innalzava tanto vessilli antifascisti o antirazzisti, come sarebbe stato appunto un anno fa, ma di orgoglio meridionale contrapposto a un ' nordico' avvertito a pelle come diverso e ostile.
C’è del resto un segnale preciso di questo mutamento degli umori da Roma in giù. Alla vigilia della pandemia il governatore della Campania De Luca era fuori gioco per le prossime regionali e la destra poteva con piena legittimità ambire a una vittoria, con la Lega in corsa per affermarsi come primo partito.
Nei mesi del Covid è cambiato tutto. De Luca ha riconquistato d’impeto una posizione dopo l'altra. È cresciuto di 25 punti nei sondaggi. La sua ricandidatura è passata da impossibile a inevitabile, con chances di vittoria che rasentano la certezza. Il miracolo è dovuto tutto e solo alla capacità del governatore uscente di far leva con notevoli capacità mediatiche su una sorta di ' orgoglio campano' e anzi meridionale.
In parte il problema di Salvini, nel Sud, è proprio che deve vedersela con avversari di centrosinistra che usano i suoi stessi metodi e con altrettanto spregiudicatezza. Quanto a demagogia e populismo, De Luca, Emiliano o de Magistris non hanno nulla da imparare da nessuno. In parte la competizione interna con Giorgia Meloni è da Roma in giù più difficile perché nel Meridione il ' peccato originale' del passato neofascista pesa molto meno che nel Nord. Ma in buona parte la sterzata si è determinata proprio in seguito alla pandemia.
Per una quantità di motivi, la crisi sanitaria ha riesumato, o forse solo ridestato, la contrapposizione latente tra Nord e Sud. Stavolta però a parti rovesciate, sotto il segno di una sorta di revanscismo meridionalista di cui gli umori antilombardi che si sono chiaramente avvertiti dopo la disastrosa gestione dell'emergenza da parte della giunta Fontana sono un chiaro segnale. Per Salvini è di gran lunga il terreno peggiore sul quale muoversi.
L’eventuale fallimento dello sfondamento nel Mezzogiorno, del resto, avrebbe più o meno rapide ripercussioni anche a Nord. Salvini ha provocato la crisi del governo gialloverde prima di portare a casa l’autonomia differenziata, obbiettivo oggi molto più difficile di quanto non fosse un anno fa ma sul quale Zaia ha chiarito le posizioni della Lega in Veneto negando la disponibilità ad allearsi con chi è contrario a quell’autonomia estrema. Il leader leghista rischia così di trovarsi tra due fuochi: difendere l’autonomia gli costerà ulteriori cali di consenso nel meridione. Non fare quadrato finirà per comportare la rivolta dello stesso Nord leghista. La partita per Salvini non è chiusa ma senza uno scossone tale da rimescolare tutte le carte, i prossimi mesi saranno per lui difficilissimi.