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Pippo Delbono entra nel ritmo incostante della gioia e del dolore, ne disegna il respiro come fossero stagioni, con i loro improvvisi rovesci e le inaspettate giornate di sole. “La gioia”, in scena al Teatro Argentina di Roma fino a domenica, è uno dei suoi spettacoli più commoventi. Permeato della presenza di Bobò – lo storico compagno di avventure sceniche scomparso lo scorso primo febbraio –, questo lavoro è un canto che si leva dalla terra e arriva ai sensi dello spettatore, lo emoziona, accarezza i suoi vuoti, le sue paure, le fragilità. La gioia trova senso nella visione di un dolore che scopre, sulla scena, espressione, spazio, identità. La compagnia di Delbono è una verità carnale, ogni anima ha una storia da raccontare e la sua parola è fatta di corpo, di movimento, della declinazione di una ferita. Un prato verde su cui compaiono fiori, un cumulo di vestiti che ricorda la “Venere degli stracci” di Michelangelo Pistoletto, una panchina nel vuoto riempito di luce, una gabbia, un tappeto di barchette di carta sul mare incerto della contemporaneità, il compleanno di Bobò – ogni tanto si festeggiava, anche più volte l’anno – un clown bianco, ora triste, ora gioioso, un sipario mentre scende sul silenzio di una perdita, e fiori, fiori ovunque, in un lavoro che tra musica, danza, voce, movimenti di luce e di ombra, ci parla dell’umano, forse lo risveglia in noi, restituendoci istanze interiori che avevamo smarrito.
“Questo spettacolo rinasce per la morte di Bobò”, afferma all’inizio. Perché rinasce?
Dalla morte di Bobò voglio ripartire per creare una nuova dimensione di possibile vita. Ma lo spettacolo rinasce anche perché è stato completamente ripensato dopo la scomparsa di Bobò.
Sotto delle luci stroboscopiche avviene una sorta di sfilata di personaggi che richiamano il tema della follia. Lei cita l’“Enrico IV” di Pirandello. Dov’è realmente la follia?
Pirandello ha sempre parlato del doppio, dell’altro, della diversità, mi sembrava giusto richiamare qui le sue parole. La follia è una zona di libertà, un luogo in cui sopravvivere e vedere le cose in maniera differente, e non è che non siano giuste perché le vedo diversamente. La follia è un altro modo di concepire il mondo, è vederlo da un’altra angolatura.
“L’avidità, la collera, la stupidità”, dice nel suo spettacolo, sono ‘ stati’ che in qualche modo ci bloccano. Perché sono così negativi?
Vanno trasformati in qualcos’altro, bisogna dargli un esito positivo. L’avidità è la frenesia di possedere, la collera è la rabbia, la stupidità è il non rendersi conto dell’interna verità della vita. Si nasce, si invecchia e si muore, ma avviene che noi non capiamo ciò che ci sta succedendo. Però a volte bisogna passare attraverso questi stati. Più nera è la notte, più lunga è la galleria, più vicino è il giorno.
C’è un momento in cui lei grida: “Dov’è la gioia?”. Una domanda che attraversa tutto lo spettacolo. Ecco: dov’è?
Me lo chiedo dov’è: dentro di me, fuori di me? Dov’è? Il mondo è pieno di tristezza, di inquietudine, di dolore, di ingiustizie, di cose che non funzionano, pieno di razzismo, di collera. Dov’è questa gioia? Vediamo solo gente che si chiude, muri che si alzano. È difficile vederla, però penso che ci sia, che sia dentro e dietro le cose.
Le immagini sono come sempre importanti: ci sono molti colori, fiori, foglie secche, vestiti ammucchiati. Cosa vogliono raccontare questi quadri?
Il senso della vita, della morte, della permanenza. Cerco di trasmettere uno stato d’animo che ha che vedere con una condizione, penso a un luogo che possa portare delle emozioni.
C’è un ritmo diverso in questo spettacolo?
Sì per me è essenziale in questo momento tornare alla calma, alla quiete, prendermi un tempo per stare zitto. “Adesso stiamo un po’ qui in silenzio a guardare”, dico a un certo punto.
La poesia “Mare nostro che non sei nei cieli”, la preghiera laica di Erri De Luca, i riferimenti ai rifugiati: sono tematiche che le stanno a cuore, di cui percepisce l’urgenza?
Sono temi che sento vicini, ho realizzato anche un film, “Vangelo”, sui e con i rifugiati. È un punto importante oggi, non possiamo scappare, dobbiamo starci dentro, viverlo.
Gianluca Ballarè è un protagonista centrale, riesce a emozionare, a far sorridere, a commuovere… Gianluca è un protagonista importante. È la figura di una persona fuori dai canoni, dalla concezione consueta dell’attore. Diventa un’icona, che porta un segno di fragilità e di bellezza.
È come un Pierrot Lunaire, un clown bianco. Cosa esprime?
In lui c’è il senso del circo, che riporta alla vita, alla luce e all’idea che, comunque, bisogna continuare a vivere.
Quando dice “comunque” pensa a dei “buchi neri” della sua vita? La morte di Pina Bausch, di sua madre, quella recentissima di Bobò? Chi era Bobò?
È stato un attore fondamentale per me, è stato il protagonista di tutti i miei spettacoli, dei miei film, di tutto quello che ho fatto. Abbiamo lavorato insieme 22 anni, l’ho conosciuto al manicomio di Napoli e l’ho portato via. È stato decisivo non solo per me, ma per tutto il teatro, ha portato la diversità. Però di Bobò non mi sento di parlare, mi crea un po’ di sofferenza in questo momento.
Se può le va di raccontare soltanto come andò a finire con il pubblico tedesco che voleva la spiegazione di un suo spettacolo?
Io provai a dire, durante un incontro, che non potevo spiegare il mio spettacolo, perché non si possono spiegare la vita, la morte, il dolore. Loro insistevano. A un certo punto Bobò ha preso il microfono e si è messo a spiegare. Loro lo hanno applaudito. Io gli chiedevo perché mai applaudissero, Bobò quando parlava, con quella sua voce da uccellino, non si capiva. Però sapeva comunicare il teatro con tutto il suo essere.
Quella di Bobò è un’ “assenza,/ più acuta presenza”, in fondo lui c’è e c’è anche Pina Bausch… C’è un po’ di Pina, c’è sempre nei miei lavori, perché lei è stata la mia maestra, colei che mi ha comunicato la libertà e ha portato anche una dimensione di libertà e anarchia nel teatro. C’è un ricordo di Bobò che saluta Pina, che era morta, e fa un suo discorso per lei, ad Avignone, una piccola preghiera per Pina, un momento magico, straordinario, di fronte a migliaia di persone. C’erano duemila garofani, che ricordavano il suo spettacolo “Nelken”.
L’immagine e la voce: due entità che a volte si scontrano e a volte si abbracciano nei suoi spettacoli… anche qui.
L’immagine o va in armonia con la voce o va in una direzione opposta, diversa. Per me è importantissimo pensare che un’immagine ti racconti una cosa e che la voce ti racconti la stessa cosa oppure altro. Gli occhi guardano e le orecchie sentono, ma le cose che guardi e quelle che senti non sono sempre uguali. Ogni senso ha la sua specificità, così come esistono la poesia, la musica, la danza.
In scena ripete “Siamo contenti!”, un’affermazione che sembra quasi di più una domanda. Si rivolge alla società?
Mi rifaccio a Rimbaud e mi rifaccio a Beckett. Quando dico: “Siamo contenti! Siamo contenti” è un momento di “Aspettando Godot”… …“- E che facciamo ora che siamo contenti? – Aspettiamo Godot”. I suoi attori sono spesso attraversati da un dolore profondo. Nelson Lariccia ha avuto un passato duro, da senza fissa dimora, Ilaria Distante ha perso il suo compagno in un incidente. Per raccontare la gioia è necessario aver conosciuto un grande dolore?
Penso di sì, credo che aiuti. Per raccontare la gioia bisogna conoscere la vita in profondità: “la paura passa, la tristezza passa, la gioia arriverà e passerà, e poi ritornerà”. Per questo quando c’è non bisogna rimandare, bisogna viverla.