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Quando un grande artista del cinema va via, tutto perde di senso, ma non rivederne i film. La visione è folle e dolorosa come una tortura implorata, un coltello agitato davanti agli occhi, quando uccidere o amare diventano la stessa cosa, e gli insulti si disperdono nei baci.
Fumava dai suoi otto anni, e solo da due aveva smesso, il quasi settantanovenne David Lynch. Negli ultimi tempi l’enfisema polmonare gli aveva tolto ogni libertà. Raccontando quella che ai più era sembrata una condanna senza appello, il cineasta aveva detto, scherzando: «Keep your eye on the donut and not on the hole». Dunque, occhi puntati fermando le lacrime, sulla sua straordinaria vita artistica. Quella resta, semplice e ricca di eterne suggestioni come una ciambella; il buco della scomparsa non dovrà farne svanire il profumo.
È venerdì 19 settembre 1986, il primo passaggio nelle sale americane di Blue Velvet, Velluto Blu. Un classico capace, per singolare forza visiva, di entrare nell’immaginario di critica e pubblico e scardinare i fondamenti psichici di noir e thriller, sfondando le barriere del cinema, nella sicurezza dei talenti interpretativi di Isabella Rossellini e Kyle MacLachlan, sorretto dalle note corpose e melanconiche di Angelo Badalamenti, i due tornati per generare la straordinaria magia di Twin Peaks, fenomeno definitivo che ha consacrato il Lynch regista dei migliori giorni.
Anche e soprattutto in Blue Velvet, il cineasta scomparso rivela dunque l’esigenza di diluire in una sola immagine più significati, in ogni personaggio più ruoli, in ogni ambiente più verità, preparandoci e votando sé stesso alla grande costruzione barocca che appunto solo quattro anni più tardi, l’ 8 aprile 1990, darà luogo alla prima di Twin Peaks. Il blu che sottolinea il mistero, il freddo, il buio, dopo i titoli iniziali, riprecipita nel cassetto dell’inconscio da cui emergerà, tra cieli surrealmente azzurri e rose rosse e gialle, bersagli per lo straniamento iniziale in chi guarda.
Ogni virata è l’implosione di una certezza: la vita che cambia in un attimo, un reperto che emerge dove mai lo si immaginerebbe, una donna che sembra sicura di sé e libera, e invece mostra di essere persa. La creazione di atmosfere difficilmente descrivibili, in contrasto dichiarato con l’ipocrita biancore della provincia americana, nella quale Lynch aveva vissuto a lungo, seguendo i genitori nei loro spostamenti lavorativi, è il vero nucleo del film e la cifra dell’arte di Lynch.
Non importa che il mistero sia enorme o trascurabile, percepito o imperscrutabile: è sufficiente che attragga, che imprigioni l’attenzione, portando gli occhi e la mente altrove, come uno stargate. I deliranti monologhi di Dennis Hopper, la carica erotica e mortalmente fragile di Isabella Rossellini, in un potentissimo e minimale alternarsi tra vittima e carnefice, rende Velluto Blu avvolgente e pericoloso, costringendo chiunque faccia regia a fare i conti con un modo nuovo, polisenso e necessariamente ambiguo di narrare l’umano.
Violento, morboso, sorprendente, capace di spaccare critica e pubblico, ma anche di mietere premi divenendo istantaneamente un cult movie, dunque. Eppure Velluto Blu di David Lynch dal celebre critico Roger Ebert fu stroncato: «A Isabella Rossellini viene chiesto di fare cose in questo film che richiedono vero coraggio... Viene degradata, schiaffeggiata, umiliata e spogliata davanti alla telecamera (…) E quando chiedi a un’attrice di sopportare quelle esperienze, dovresti rispettare la tua parte dell’accordo inserendola in un film importante».
Solo quest’anno la replica dalle pagine di IndieWire dell’interprete della misteriosa, fragile cantante di night Dorothy Vallens, plagiata e abusata da un Dennis Hopper sublime e terribile nel ruolo del gangster psicopatico Frank Booth: «(...) Roger Ebert aveva detto che Lynch mi sfruttava, e sono rimasta sorpresa perché ero adulta. Avevo 31 o 32 anni. Ho scelto io di interpretare il personaggio (…)».
Sul film, rivisto da ospite d’onore alla Festa del Cinema di Roma, afferma: «È uno dei suoi film migliori. È un grande autore. Penso che per il mio personaggio sia stata la prima volta che abbiamo messo in scena una donna maltrattata, ma anche che lei si sia mimetizzata dietro ciò che le era stato chiesto di essere, mostrandosi sexy e bella, obbedendo all’ordine. Questa è la complessità di Velluto Blu, ma anche il grande talento di David Lynch. Penso che abbia fatto un film fantastico. Adoro Velluto Blu».
Un film geniale, anche perché simile a un testo esoterico, e dunque costruito su più livelli di significato. Di qui le rose rosse e gialle dell’inizio, e i pettirossi che Sandy Williams (Laura Dern) racconta al fidanzato Jeffrey Beaumont (il feticcio lynchiano Kyle MacLachlan) di aver sognato, poi mostrati a fine film. L’alchimista David Lynch, che pure era già riuscito nell’impresa impossibile di mutare un romanzo di ferro come Dune in immagini di oro puro, usa il simbolismo del pettirosso, animale caro ai miti dei Celti e al Frances Hodgson Burnett de Il Giardino Segreto, per elaborare i due concetti primari di metamorfosi e rinascita.
In fondo, Dorothy Vallens, cantando il gelo del cuore e del corpo rubato, vuole rinascere come un pettirosso, e sottrarsi al dolore autoinflitto o subìto, ascendendo a vita nuova, scoprendo segreti come quelli che in Dune rendevano possibile distillare l’acqua dal vento, o rivelandone altri a chi le attraversa la strada, sconfiggendo per sempre l’inverno della vita e ritrovando la speranza di una primavera, nell’alternanza necessaria tra lo svanire del blu e l’annuncio del rosso.