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In principio fu Goebbels, ministro della Propaganda del Terzo reich, con quelle mani implacabili che mettevamo «mano alla pistola» ogni qualvolta sentiva vibrare nella stanza la parola «cultura». Quasi sicuramente una citazione apocrifa visto che la celebre invettiva appartiene al commediografo tedesco Hanns Johst che l’infilò nell’opera Schlageter messa in scena per la prima volta nell’aprile 1933, in onore del compleanno di Adolf Hitler. La sostanza in ogni caso non cambia: l’odio viscerale per gli intellettuali “esangui” e “manipolatori” è un tratto distintivo di ogni regime, ma anche un ( ri) sentimento che ha radici profonde, che trascende il populismo e incombe persino sulle democrazie più moderne e collaudate come dimostrano le parole della consigliera pentastellata Gemma Guerrini che ripropone, in forma di farsa, l’ennesima variazione sul tema.
Come non pensare al «culturame» del democristiano Mario Scelba che nel 1949 commentò così la vittoria dell’anno precedente contro il Fronte popolare: «La Dc non avrebbe trionfato se non avesse avuto in sé una forza morale, un’idea motrice, che vale molto di più di tutto il culturame di certuni». Chi sarebbero i «certuni» ?
I pensatori oziosi e «vanitosi» naturalmente, creature prive di fibra e senso pratico, pifferai magici che incantano e «distraggono» le masse con tutti i loro libri, il loro cinema, la loro musica, la loro inutile e stucchevole attività. L’ “arte degenerata” del nazionalsocialismo, «l’eclettismo decadente» denunciato da Stalin, ogni epoca ha avuto i suoi pretoriani che andavano a caccia di scrittori e artisti colpevoli di traviare il popolo. E, anche se aiuta, non c’è necessariamente bisogno di mettere in piedi una dittatura per colpire il bersaglio grosso.
Scelba, che provò senza troppa convinzione a correggere il tiro, difendeva a suo modo gli angusti orizzonti del piccolo borghese “poujadista” descritto mirabilmente da Roland Barthes nelle Mythologies, una figura «che possiede il buon senso alla maniera di un’appendice fisica gloriosa, di un organo particolare di percezione, che stabilisce uguaglianze semplici tra quello che si vede e quello che è: il buon senso è come il cane da guardia delle equazioni piccoloborghesi, definisce un mondo omogeneo, al riparo da disordini e dalle fughe del sogno, un linguaggio che implica il rifiuto dell’alterità, la negazione del diverso».
La prima descrizione dell’anti- intellettualismo nella cultura occidentale probabilmente risale a Platone nel celebre passaggio del Teeteto dedicato al filosofo naturalista Talete: «Mentre stava osservando le stelle Talete guardava in alto e cadde in un fosso. Una servetta tracia si burlò di lui, domandandogli come potesse pretendere di osservare quel che accade in cielo se non sapeva nemmeno ciò che aveva davanti ai piedi». Ecco, l’irridente servetta tracia, con la “testa sulle spalle” e i “piedi per terra” nel corso della Storia ha avuto innumerevoli incarnazioni, che si tratti della santa alleanza che voleva giustiziare l’ebreo Dreyfuss, della caccia alle streghe nell’America maccartista o degli scrittori ( Pasternak, Nabokov) fatti a pezzi dalla censura sovietica, lo spartito da suonare non cambia. E non cambia nemmeno la carica di violenza con cui i mazzieri si scagliano contro gli odiati intellettuali.
Rispondendo a Scelba, il critico letterario e poi deputato nonché suo compagno di partito Luigi Russo colse proprio questo elemento di prevaricazione: «Ha parlato di culturame, il suo linguaggio ricorda quello dei corsari neri con il loro “scatolame” e “budellame” e dei campieri siciliani al soldo dei latifondisti che frustavano i contadini e i braccianti chini sul lavoro».