PHOTO
Lontano dalle aule del Trinity college, dai disprezzati colleghi, dall’imbolsita comunità accademica. Per un anno intero il grande scienziato Isaac Newton ha vissuto confinato nel suo cottage di Woolsthorpe, a nord di Londra. Era il 1665 e la capitale britannica era flagellata dall’epidemia della “grande peste” ( portata in città dalle navi mercantili olandesi che commerciavano cotone) che uccise 100mila persone, circa il 20% della popolazione.
Paradossalmente fu un altro tragico evento a debellare il morbo: il grande incendio di Londra del 1666 che oltre a distruggere 15mila abitazioni segnò anche la fine della piaga, sterminando le colonie di topi, principali vettori della malattia. Le scene, infernali, di quell’ecatombe, sono raccontate in modo vivido dallo scrittore Daniel Defoe ( già autore di Robinson Crusoe e Moll Flanders) nel toccante A Journal of the Plague Year.
E’ stata l’ultima grande ondata di peste bubbonica nel Regno Unito e assieme all’analoga epidemia di Marsiglia nel 1712, rappresentò il primo tentativo di risposta su scala nazionale e con protocolli epidemiologici più o meno efficaci al contagio di massa.
Nessuno ancora sapeva cosa diavolo fossero batteri e virus, ma il buon senso e i riscontri empirici suggerivano l’isolamento e i mantenimento delle distanze per attenuare le infezioni, gli stessi ragionevoli metodi che quattro secoli dopo continuiamo a seguire per proteggerci dal coronavirus.
Così anche il giovane Newton ( all’epoca aveva 24 anni) decise di mettersi in “quarantena volontaria”, una condizione quasi ideale per una mente vorticosa e irrequieta come la sua; fu nel silenzio e nella bucolica calma di Woolsthorpe che Isaac mise a fuoco le sue intuizioni e concepì la rivoluzionaria teoria della gravitazione universale.
Intanto divorava i libri di Wallis, Boyle, Hobbes e Descartes verso cui nutriva un sincero disprezzo, accusando il filosofo francese di «mescolare fisica e metafisica», con tutte quelle teorie sui vortici, sulla materia eterea e sugli animali definiti “macchine senz’anima” che secondo lo scienziato britannico sarebbero «ipotesi gratuite e pagane». Lo stesso Galileo Galilei, che Newton stimava per forza di cose, era a suo avviso ancora vittima di «incrostazioni metafisiche».
La storiella della mela che cade giù dall’albero accendendo improvvisamente la luce del genio è probabilmente una leggenda apocrifa che i divulgatori diffondono per spiegare la fisica ai bambini.
Ma come racconta il suo assistente personale John Conduitt , al centro della sua tenuta sorgeva un grande melo, sotto il quale Isaac si immergeva in profonde riflessioni sulla gravità: «Era seduto accanto al grande albero e confabulò tra sé e sé: “la stessa forza che fa cadere i frutti dagli alberi deve estendersi oltre i limiti della terra, oltre la luna e i pianeti”».
Ed è sicuramente nel suo giardino di casa che affinò le capacità di osservazione e di calcolo, gettando le basi della legge di gravità che vent’anni più tardi verranno esposte nel grandioso Principi di matematica e filosofia naturale, uno dei libri più importanti della storia umana assieme a L’origine della specie di Darwin e L’interpretazione dei sogni di Freud.
Newton era un genio matematico, come sapevano tutti a Cambridge, ma da buon pensatore britannico era anche un appassionato seguace del metodo sperimentale e del ragionamento induttivo, E in quello splendido isolamento, che lui stesso definì «anno delle meraviglie», realizzò centinaia di esperimenti cruciali, in particolare sulla natura della luce.
Era nel pieno del vigore intellettuale e attraversato da un fervore a tratti incontenibile come scrisse al termine della sua vita: «Pensavo tutto il giorno alla matematica e alla filosofia, facevo questo più che in qualsiasi altro momento della mia vita».
Osservando un raggio che attraversava un prisma di vetro stabilì le principali leggi dell’ottica e della rifrazione, scoprendo che i colori non sono una proprietà degli oggetti bensì della luce stessa.
Ribaltò così le vaghe nozioni che all’epoca si erano raccolte intorno alla natura dei fenomeni luminosi.
Nel 1667 la peste è finita Newton ritorna all’università e presenta agli accademici suoi lavori, nonostante la diffidenza per la sfrontatezza delle sue teorie nessuno può negare che quel giovane irruento abbia una mente brillante e superiore, così viene nominato professore associato e l’anno successivo ottiene una cattedra tutta sua diventando fellow professor.