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Trent’anni fa moriva Primo Levi. Era l’ 11 aprile del 1987. Non aveva ancora 70 anni. Decise lui di morire. Si gettò nella tromba delle scale, nella sua casa di Torino: morì sul colpo. Perché si suicidò? C’è solo una risposta a questa domanda, ed è una risposta che contiene dentro di se un gigantesco mistero.
Si suicidò perché non reggeva più al ricordo di Auschwitz, dove aveva vissuto per 23 mesi tra il febbraio del 1943 e la fine di gennaio del 1945, prigioniero dei nazisti, in lotta quotidiana per sopravvivere, per tenersi fuori dalla grande massa dei “sommersi”, come lui li chiamò nell’ultimo suo romanzo, scritto pochi mesi primi della morte, cioè tutti quelli che non ce la fecero e furono schiantati dalla fame, o dalla fatica, o arsi vivi nelle camere a gas.
Proprio così: Auschwitz uccise milioni di persone, lasciò pochi superstiti, e questi superstiti furono perseguitati per tutta la vita non solo dall’orrore del ricordo, ma da un grandioso, inestinguibile, inspiegabile senso di colpa. Colpa di che, perché? Colpa per essere sopravvissuti ai propri fratelli.
Primo Levi – a mio avviso modestissimo – ha scritto le pagine di prosa più belle della letteratura italiana di tutti i tempi. I sui due primi romanzi, e cioè “Se questo è un uomo” e “La tregua”, sono opere memorabili e senza eguali. Hanno raccontato al mondo intero, come nessuno era riuscito a fare, la realtà cruda e infernale dei campi di sterminio. Sono stati una sassata, che ha rotto, dopo anni, la inaudita opera di rimozione, collettiva, che ancora 20 anni dopo la sconfitta del nazismo nascondeva la realtà del più grande crimine mai commesso dall’umanità: la Shoah.
Levi, quando si tormentava nel suo lettino nel campo di Auschwitz- tre, aveva un sogno ricorrente: sognava di tornare in Italia ed essere accolto dall’indifferenza e dal silenzio. Nel sogno lui raccontava quello che aveva visto nel Lager, diceva dei 10.000 sui compagni che ogni giorno perdevano la vita, e nessuno gli credeva.
Poi, il 27 gennaio del 1945, i russi liberarono Auschwitz, e Levi, dopo un viaggio infinito per l’Europa, durato mesi e mesi, riuscì a tornare a Torino. Decise di scrivere un libro per raccontare cosa era successo ad Auschwitz. Portò il manoscritto all’Einaudi, e cioè alla casa editrice della borghesia illuminata torinese, di proprietà di Giulio Einaudi, il figlio di Luigi, e si sapeva che Giulio Einaudi era un progressista, un antifascista, era vicino al Pci. Nella sua casa editrice lavoravano grandi scrittori, come Natalia Ghinzburg, Italo Calvino e tanti altri. La Einaudi però gli respinse il libro: disse che non era interessante e che non era molto credibile. Allora lui lo pubblicò per una piccola casa editrice, la Da Silva, che ne stampò poche migliaia di copie e ne vendette qualche centinaio. Un fallimento. Il suo incubo del lager diventava vero. Il libro si chiamava “Se questo è un uomo”, era un capolavoro assoluto, un opera eccezionale di letteratura, di storia, di denuncia. Una testimonianza senza eguali, scritta con uno stile sobrio elegantissimo e struggente.
Passarono dieci anni, prima che la Einaudi cambiasse idea e decidesse di pubblicare il libro di Levi. Era il 1956 e il libro, finalmente, ebbe un grande successo editoriale. Gli americani, i francesi, gli inglesi chiesero che fosse tradotto. In pochi anni arrivò in tutto il mondo. In Italia fu un elemento decisivo per rompere il velo sul silenzio.
Io ricordo che ero bambino in quegli anni. Nell’estate del 1957 avevo appena finito la seconda elementare, e in casa mia si parlava parecchio di politica. Mi ricordo molto bene, tra l’altro, l’arrivo dei profughi ungheresi, l’anno prima, e i racconti di mio padre su cosa era il comunismo, sulla guerra, sul fascismo. In quell’estate del ‘ 57 ero in vacanza a Lido dei Pini, vicino ad Anzio, e dal droghiere, dove andavo a comprare lo zucchero, il latte e il detersivo, incontravo una signora molto alta, magrissima, coi capelli bianchi alla maschietto, era abbronzatissima e la sua figura mi aveva colpito. Aveva due braccia muscolose e su una delle braccia era inciso un numero blu, di sei cifre, mi pare. Allora chiesi a mia madre chi fosse quella strana signora “numerata”. Mi disse che era una grande scienziata italiana, una fisica, che aveva lavorato con Enrico Fermi alla scoperta dell’energia nucleare, e che poi era stata arrestata dai nazisti e mandata in campo di concentramento. Io chiesi perché era stata arrestata, e così mia madre, alla fine, si decise a raccontarmi la storia della persecuzione contro gli ebrei, mi parlò dello sterminio, dei lager, senza eccedere però nei toni, senza indignazione, senza stupore.
Me lo ricordo ancora, io, quel racconto, perché rimasi sconvolto, e non capii perché nessuno mi aveva mai parlato di questo olocausto. Il motivo era semplice: in Italia, fino almeno alla metà degli anni ‘ 60, nessuno parlava dell’Olocausto, né tantomeno delle responsabilità italiane. Levi visse in questo dramma. Sebbene avesse delle straordinarie doti di scrittore, non superò mai la timidezza, non scelse mai la via definita dello scrivere: continuò a guadagnarsi la vita facendo il chimico, fino al 1975. Forse anche per gratitudine verso quella professione, visto che era stata lei a salvargli la vita. Ad Auschwitz i tedeschi avevano bisogno di esperti di chimica per lavorare in una fabbrica che produceva gomma. E Levi, che sapeva un pochino di tedesco, riuscì a farsi mandare lì, e così evitò il lavoro manuale, 14 ore al giorno, che sicuramente lo avrebbe stroncato.
Primo Levi era nato a Torino nel 1919. Aveva studiato all’università, si era laureato, e poi era finito discriminato dalle leggi razziali. Nel ‘ 43 si unì ai partigiani, ma fu catturato, riconosciuto come ebreo e spedito ad Auschwitz.
“Se questo è un uomo”, e il romanzo successivo - “la Tregua”, scritto nei primi anni ‘ 60 dopo che il primo libro, finalmente, aveva avuto successo - sono i suoi capolavori. Ma anche le sue opere successive, tra le quali, come abbiamo detto, “I Sommersi e i salvati” e “La chiave a stella”, sono dei grandissimi libri. Colpisce il suo stile. Specialmente se riletto oggi. Scarno, essenziale. Non c’è traccia di odio. Mai. Eppure aveva visto cose infernali, aveva subito le ingiustizie più grandi che un essere umano possa subire, era stato vittima della violenza più buia e della sopraffazione assoluta. Era capace di raccontare queste cose senza omissioni e senza rivalsa. La sua scrittura è struggente, ma non è mai retorica. Non cerca l’applauso, il consenso, la rabbia.
Nella pagina qui accanto pubblichiamo una sua lettera, scritta nel 1979, a Sante Notarnicola. E cioè a uno dei banditi più famosi d’Italia. Notarnicola era il vice di Pietro Cavallero, e la loro banda, negli anni sessanta, fece decine di rapine a Milano. A mano armata. Poi nel settembre del ‘ 67 una rapina finì male: arrivò la polizia e iniziò un folle inseguimento. I banditi spararono e sparò la polizia. Tre morti. Cavallero e Notarnicola riuscirono a scappare, altri due complici furono catturati. La settimana dopo presero anche Cavallero e Notarnicola. Il processo fu rapido: ergastolo. In carcere Notarnicola si avvicinò alla Brigate Rosse, che nel ‘ 78 misero il suo nome in testa alla lista dei prigionieri da scambiare con Aldo Moro. Non se ne fece niente: lo Stato non trattò. In quegli anni un terrorista era un terrorista, un bandito un bandito: e cioè un reietto, una jena, come scriveva sempre l’Unità. Per Primo no: un bandito era un uomo. E se scriveva delle belle poesie era un poeta. Leggetela questa lettera che scrisse a Notarnicola, è la prova che anche nei momenti peggiori dello spirito pubblico, quando l’odio e la violenza comandano e si impongono alle menti, c’è sempre qualche anima superiore in grado di fregarsene del senso comune, e di riflettere, e di donare pensiero e spirito di libertà.