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In occasione del quarantesimo anniversario dell’elezione dell’indimenticabile Sandro Pertini al Quirinale, che ricorrerà domenica 8 luglio, si sono naturalmente inseguite iniziative, commemorazioni e ricerche d’archivio. Delle quali ha fatto purtroppo le spese il suo diretto predecessore alla Presidenza della Repubblica, Giovanni Leone, già costretto alle dimissioni sei mesi prima della scadenza del mandato sotto l’onda di una campagna denigratoria demolita poi nei tribunali, ma sfruttata politicamente dai due maggiori partiti di allora, il Pci e la sua Dc. Che, dicendo di voler mandare un segnale all’opinione pubblica tanto delusa dai partiti da averne salvato a stento in un referendum il finanziamento pubblico, in realtà non gli vollero perdonare di essersi messo di traverso alla linea della fermezza adottata dal governo della cosiddetta solidarietà nazionale nella gestione del drammatico sequestro di Aldo Moro ad opera delle brigate rosse.
Succedutogli dopo quasi un mese, al termine di una lunga serie di votazioni parlamentari da cui era uscito e rientrato grazie ad un’avveduta rinuncia che aveva spiazzato i settori democristiani originariamente ostili, Pertini lanciò il 9 luglio nel discorso di giuramento un segnale di indubbia amicizia a chi lo aveva preceduto. Dopo avere reso omaggio a tutti gli ex presidenti della Repubblica «per l’opera svolta nel supremo interesse del Paese», egli mandò un particolare «saluto al senatore Giovanni Leone, che oggi vive in amara solitudine».
Fu proprio quel saluto amichevole che Pertini più di sei anni dopo, il 31 ottobre del 1984, rinfacciò a Leone in una dura lettera, rimasta inedita sino a lu- nedì scorso, quando l’ha pubblicata il Corriere della Sera. «Ti ho sempre difeso, sempre, da accuse infamanti, da maldicenze che toccavano anche i tuoi familiari. Nel mio discorso di insediamento con parole umane, fraterne, ti ho inviato la mia solidarietà. E tu invece, non fai che della maldicenza idiota nei miei confronti. Questa maldicenza gli scrisse Pertini – degrada te, non tocca me. Sputi su un’amicizia ch’era sincera. Non la meriti, come non meriti più da parte mia alcuna umana considerazione. Da oggi non ti difenderò più ma ti abbandonerò “ad bestias”. Questo e solo questo meriti».
Nella lettera – di cui è stata trovata una minuta dattiloscritta, firmata da Pertini a mano col suo solo cognome, tra le carte della Fondazione Turati– Centro Studi Sandro Pertini di Firenze presieduta dal professor Maurizio Degli Innocenti e diretta dallo storico Stefano Carretti, come ha riferito Marzio Breda sul Corriere – seguono due P. S., cioè post scriptum, e una nota che aiutano a capire le circostanze in cui maturò l’arrabbiatura di Pertini.
Un giornale aveva riferito di un “analfabeta” che Leone avrebbe dato a Pertini in una conversazione con Franco Evangelisti, uomo di fiducia di Giulio Andreotti. Le smentite opposte dagli stessi Leone ed Evangelisti non avevano evidentemente convinto Pertini. Che nel secondo P. S. scrisse a Leone: «Se tu avessi letto solo una parte di quello che ho letto io per vincere la solitudine del carcere e il peso del confino ( 14 anni!) ti sentiresti una biblioteca ambulante. Quattordici anni di detenzione, sopportati anche per la tua libertà di dire e fare sciocchezze degradanti. Allora tu marciavi fieramente in orbace e se i tuoi allievi non si presentavano in camicia nera, rifiutavi di esaminarli! Meschino opportunismo che ti dovrebbe rendere più umile e più rispettoso di chi ha sacrificato la sua giovinezza anche perché tu ti sentissi libero, ma non per diffamare e dire sciocchezze, bensì per sentirti più uomo, in piedi, e non in ginocchio».
Leone doveva essersi lamentato con Evangelisti anche della mancata risposta di Pertini a un suo telegramma di auguri per il compleanno se il presidente nel primo P. S. gliene contestò il contenuto. Che era questo: «Auguri anche miei Leoni». «Come potevo pensare – gli scrisse Pertini – che fosse tuo un telegramma stilato da un quasi analfabeta? Ho pensato che fosse di un mio compagno romano, al quale ho risposto. Questo ti dico per chiarire un equivoco, di cui tu hai fatto un dramma. E adesso vai per la tua strada, che è opposta alla mia, con il tuo animo meschino, con i tuoi rancori stolti, con la tua pochezza. Io vado per la mia, su cui incontro spesso gente che mi ama, mi stima e mi ammira».
L’aggiunta finale – quella peraltro sotto la quale c’è la firma a penna – contesta a Leone di avere lamentato le esternazioni pertiniane rispondendo ad una domanda sulla sua presidenza, peraltro elogiata dal settimanale britannico «e oggi anche dal Time». Eppure – lamenta sempre la minuta, ripeto, della lettera pubblicata anche in foto a pagina 31 del Corriere della Sera di lunedì scorso, 2 luglio – «al Congresso dei Giuristi svoltosi di recente a Taormina tutti gli oratori, tutti, hanno elogiato il comportamento da me tenuto nei quasi sette anni di mia presidenza. E i tuoi anni di “presidenza” sono stati elogiati o biasimati?» chiede retoricamente Pertini: re- toricamente, perché erano stati forse ignorati, perdurando quell’anno la dannatio memoriae dell’ex presidente. Le scuse a Leone dai suoi critici, che ne vollero e ottennero le dimissioni, sarebbero arrivate solo nel 1998, vent’anni dopo lo scempio che si era fatto di lui.
La famiglia di Leone, composta dalla moglie Vittoria e dai figli Mauro, Paolo e Giancarlo, ha scritto al Corriere per manifestare la sua incredulità, non avendo trovato quella lettera nell’archivio del congiunto depositato al Senato. Marzio Breda ha avuto facile gioco nella risposta citando un passo della biografia di Antonio Maccanico, segretario generale del Quirinale ai tempi di Pertini, in cui si racconta dell’intemerata privata e incontenibile del presidente contro il suo predecessore segnalatagli dalla segretaria, senza che lui potesse intervenire per impedirla, come invece avrebbe voluto. Egli era convinto che il capo dello Stato, pur essendo il più popolare fra tutti quelli avvicendatisi nella storia della Repubblica, dovesse essere «protetto dal suo carattere». Potrebbe pertanto essere accaduto che, ricevutala, Leone avesse cestinato quella lettera perché “indigeribile” anche al suo archivio, come ha scritto Breda.
Indigeribile, appunto, fu anche per le mie carte una laconica sfuriata epistolare fattami da Pertini nel 1979, dopo una colazione offertami una domenica nella tenuta presidenziale di Castel Porziano.
Si era appena consumata una faticosa crisi politica in cui Pertini aveva spiazzato democristiani e comunisti conferendo l’incarico di presidente del Consiglio al collega di partito Bettino Craxi, costretto poi a rinunciarvi e a passare la mano, dopo un passaggio inutile di Filippo Maria Pandolfi, a Francesco Cossiga. Che realizzò un governo di chiusura della stagione della “solidarietà nazionale”, col Pci tornato all’opposizione e il Psi nella maggioranza.
Pertini, che aveva con i comunisti un buon rapporto, tanto da essere arrivato al Quirinale l’anno prima soprattutto grazie a loro, che lo preferirono agli altri socialisti proposti da Craxi, prima Antonio Giolitti e poi Giuliano Vassalli, mi disse di essere rimasto sorpreso della loro “ingenuità”. Che era consistita nella speranza di riprendere il rapporto con la Dc dopo le elezioni anticipate di quell’anno, peraltro provocate proprio dalla loro decisione di ritirare l’appoggio al governo Andreotti formato pochi giorni prima del sequestro di Moro.
Tornato nella redazione romana del Giornale, riferii della chiacchierata al direttore Indro Montanelli. E concordammo di farne un pezzo che conciliasse il carattere amichevole dell’incontro, con la riservatezza che poteva derivarne, e il dovere d’informare i lettori delle ragioni per le quali il capo dello Stato aveva consentito l’epilogo della stagione della collaborazione parlamentare fra la Dc e il Pci cominciata dopo le elezioni, anch’esse anticipate, del 1976: quelle in cui – aveva detto Moro– c’erano stati “due vincitori”, la Dc e il Pci, obbligati proprio per questo ad accordarsi per garantire la governabilità del Paese, non disponendo né l’uno né l’altro in Parlamento dei numeri necessari per fare da soli, o l’una contro l’altro con alleati insufficienti.
Pur nella sua prudenza, senza ricorso alle virgolette, e ribadendo tutto il rispetto politico e gli antichi rapporti fra Pertini e comunisti, con alcuni dei quali egli aveva condiviso il carcere e il confino durante il fascismo, il presidente non gradì l’articolo. Prima egli tentò un po’ maldestramente, in verità, di bloccare il pezzo in tipografia, anticipato alle agenzie, con una telefonata in cui il suo capo ufficio stampa, e mio amico Antonio Ghirelli, minacciò addirittura le sue dimissioni, sentendosi responsabile dell’invito a colazione. Poi fece diffondere una nota di smentita a un’intervista che non era stata pubblicata come tale.
Dati i nostri consolidati rapporti di amicizia, cominciati nei corridoi della Camera quando egli era un vice del presidente Giovanni Leone, gli scrissi una lettera rispettosamente amareggiata, ricordandogli ch’egli stesso mi aveva sempre detto, rammaricandosi delle ricorrenti smentite dei politici, che quando si parla con un giornalista, quale peraltro anche lui era avendo diretto giornali, per quanto di partito, non bisogna mai dimenticarne la professione, e i conseguenti obblighi verso i lettori.
Anziché chiarire il caso, lo aggravai con quella lettera. Che il giorno dopo Pertini mi rimandò indietro, tramite un Carabiniere motociclista del Quirinale con tanto di stivaloni e casco, scrivendo di suo pugno sulla busta: «Respinto al mittente con invito a non importunare più il destinatario». Nascosi il fat- to a Montanelli per evitare che ne facesse il motivo di uno dei suoi pungenti corsivi di prima pagina, con i quali egli aveva già punzecchiato Pertini, che pure gli era simpatico, ma di cui non apprezzava le troppo frequenti dichiarazioni.
Passarono quasi due anni e una mattina una telefonata dal centralino del Quirinale mi buttò giù dal letto. Mi passarono Pertini. Che, dimentico di tutto, voleva sfogarsi con me della «nostra colpa», al plurale, per la tragica fine di Alfedrino Rampi, il bambino caduto in un pozzo nelle campagne romane di Vermicino e morto praticamente in diretta televisiva, col presidente della Repubblica sul posto, avendo voluto seguire personalmente i disperati tentativi di soccorso. Mi assunsi, per ritrovata amicizia, tutte le corresponsabilità attribuite da Pertini all’informazione, che avrebbe finito per complicare gli interventi dei vigili del fuoco e di volontari offertisi a raggiungere il bambino rimasto prigioniero nella caduta.
Due anni dopo, nel 1983, sempre lui, Pertini, mi ributtò giù dal letto per un’intemerata contro Montanelli, che mi aveva lasciato andar via dal Giornale per un editoriale non pubblicato in difesa di Craxi, di cui il presidente mi chiese perentoriamente una copia, stimando Bettino pure lui, tanto da dargli dopo qualche mese di nuovo l’incarico, questa volta riuscito, di presidente del Consiglio. Allora egli rimproverava al segretario socialista solo di avere cambiato il simbolo del suo Psi con qualcosa che, secondo lui, assomigliava «più a un pennello da barba che a un garofano».
Le sfuriate di Pertini erano tanto incontenibili quanto reversibili. Non escludo pertanto che anche al povero Leone egli avesse poi fatto una telefonata amichevole dopo quella pesantissima lettera di rimprovero.
Al povero Antonio Ghirelli capitò nel 1980 di essere licenziato in tronco durante una visita di Stato a Madrid per avere diffuso l’opinione critica di Pertini sulla vicenda esplosa a Roma di Cossiga, accusato in Parlamento, su atti trasmessi dalla magistratura piemontese, di avere rivelato da Palazzo Chigi al suo amico e collega di partito Carlo Donat– Cattin un ordine di arresto spiccato contro il figlio Marco per terrorismo.
Il giudizio di Pertini sulla opportunità delle dimissioni di Cossiga, poi salvatosi in Parlamento, fu duramente contestato dall’allora segretario della Dc Flaminio Piccoli, al quale venne praticamente offerto come capro espiatorio il portavoce del Quirinale. Che tre anni dopo però sarebbe diventato con Craxi capo ufficio stampa a Palazzo Chigi. «Non potevo rifiutare a Sandro questo piacere», mi confidò Bettino, che per quell’incarico aveva altri per la testa. E avrebbe poi avuto il suo daffare per coordinare il vulcanico e laicissimo Ghirelli col curiale capo della sua segreteria, che era Gennaro Acquaviva. Amici, per carità, ma a modo loro.