Diciannove maggio duemila quattordici. Roma. Quando Beppe Grillo arriva a via Teulada per chiudere la campagna del Movimento 5 stelle per le elezioni europee la più potente immagine di Pier Paolo Pasolini subisce l’ultima mutazione possibile, quella che la trasforma in uno spot pubblicitario.Grillo da VespaIn una delle due automobili che l’accompagna a Porta a porta, il capo comico genovese approdato alla politica ha custodito un regalo per Bruno Vespa. È una riproduzione del castello di Lerici, la fortezza che domina il golfo dei poeti in Liguria. «Il castello – scrive sul suo blog Grillo – è un simbolo di quello che succederà se il M5S andrà al governo». Un processo alle tre categorie di persone che hanno distrutto l’Italia – giornalisti, industriali e politici – che dopo essere state giudicate saranno mandate a espiare la loro pena nelle segrete del castello. Sarà – dice Grillo – «un processo popolare, mediatico», che verrà celebrato «in Rete». Per un motivo semplice: «Così come non si può costruire sulle macerie, non si può edificare una nuova Italia senza sgombrare il terreno da coloro che l’hanno depredata trasformando la quinta (sesta?) potenza industriale in un deserto».Non c’è bisogno nemmeno di citarlo Pier Paolo Pasolini, tanto è evidente il riferimento al suo Processo. «L’esito comico della metafora pasoliniana – scrive Francesco Merlo – rende grottesco ma non divertente il Processo che ora Grillo ci promette». Già due anni prima Beppe Grillo aveva invocato una Norimberga italiana per ripulire la nazione, mimando l’invettiva del Pasolini finale, quello delle Lettere luterane.Il CorseraNonostante che l’idea della punizione fosse l’ultima cosa che aveva in mente Pier Paolo Pasolini quando il 24 agosto del 1975 scrisse sul Corriere della Sera l’articolo del “Processo”. A Pasolini importava un processo di comprensione di ciò che era successo in Italia negli anni Sessanta e Settanta. Un rito collettivo di elaborazione storica. «La colpevolezza dei potenti democristiani da trascinare sul banco degli imputati – scrive – non consiste nella loro immoralità (che c’è), ma consiste in un errore di interpretazione politica nel giudicare se stessi e il potere di cui si erano messi al servizio: errore di interpretazione politica che ha avuto appunto conseguenze disastrose nella vita del nostro Paese».L’immaginazione di Pasolini ha fatto della metafora del Processo un simbolo obbligato della vita pubblica italiana.La distorsioneNei passaggi più delicati della vicenda nazionale, il Processo è stato invocato come un rito purificatore. È stato utilizzato come un simbolo per illuminare una discussione. Oppure è stato preso come un suggerimento. Di più, un’ingiunzione. Durante la prigionia di Aldo Moro, per esempio, a qualcuno è sembrato che dalle parole (di Pasolini) si passasse ai fatti (delle Brigate Rosse). Tanto che Giorgio Galli scrive su Repubblica un articolo per calmare gli animi e precisare che «l’iniziativa specifica del cosiddetto “processo” al massimo leader della Dc riprende un argomento che era stato dell’ultimo Pasolini», ma che ciò che stavano facendo le Br non era certo il processo che Pasolini aveva in mente.L’immagine del Processo ha seguito il fiume carsico della storia patria e nei momenti di passaggio, nei delicatissimi frangenti in cui tutto è stato messo in discussione, è riaffiorato in superficie, imponendosi nella discussione pubblica come un termine di riferimento: a volte a mo’ di suggestione, in altre occasioni come un desiderio.Il professore Alberto Asor Rosa, che – come abbiamo visto – è stato più volte critico con Pasolini, nel 1993 ha un ripensamento: «Bisogna essere onesti – scrive – e confessare che la rilettura di questo Pasolini produce dei sussulti nella nostra coscienza che vale la pena di rimettere in circolo». Il Pasolini che sta ripassando è quello del Processo, appunto. Il tempo è quello di Tangentopoli. Quando la prima repubblica sta rovinando al suolo per le conseguenze dell’inchiesta Mani pulite. Succede così che un’altra volta il simbolo del Processo sembra aderire alla perfezione alla realtà storica, al punto che le sue parole vengono rimpicciolite a didascalia di una foto della cronaca politica. L’Asor Rosa che rivaluta Pasolini vuole prenderlo più che mai in parola, realizzando – a distanza di vent’anni – la sua invettiva. Dopo aver elencato i capi d’accusa che lo scrittore contesta alla Democrazia cristiana, Asor Rosa rileva che nessuno di essi «ha trovato una risposta nei vent’anni che ci separano dalla sua morte». Per questo, conclude amaro, «se non faremo quel processo – un processo non dei giudici soltanto, ma della nazione intera – l’Italia non potrà essere governata».Enzo Golino si spinge ancora più in là, cioè sino alla perfetta aderenza dell’immagine simbolica con la cronaca giudiziaria.Corsaro o PmPasolini viene accostato al pubblico ministero più rappresentativo della procura di Milano: Antonio Di Pietro. Come se il magistrato avesse raccolto il testimone del poeta: «Le parole – scrive Golino – nei meandri della Storia, spesso si traducono in fatti, e in questo caso azzardo l’ipotesi che un filo sottile unisca il Corsaro al Magistrato, ciascuno armato di un codice – Pasolini la Poesia, Di Pietro la Legge, a volte da entrambi utilizzate con disinvoltura – per combattere il degrado italiano».Pier Paolo Pasolini come Antonio Di Pietro. Ecco cosa succede quando si prendono alla lettera i simboli e li si fanno volare rasoterra: diventano ridicoli. Come il meraviglioso Albatros della poesia di Charles Baudelaire, che, dopo essere stato catturato, perde improvvisamente il suo splendore. «Com’è goffo e maldestro, l’alato viaggiatore! / Lui, prima così bello, com’è comico e brutto! ». Nella polvere della cronaca giudiziaria, l’immagine simbolica del Processo si inaridisce, smette di essere immagine mitica a cui confrontare il reale, interrogare la vita e la politica, e diventa invocazione di processi veri celebrati in nome del popolo italiano, dove l’immaginazione è la prima a essere sospettata. Il Processo di Pasolini viene evocato anche da Marco Travaglio nel suo spettacolo È stato la mafia. Ma il grottesco viene fuori quando il procuratore dell’inchiesta stato-mafia – il dottor Antonio Ingroia – si spinge sino a titolare il suo libro sulla vicenda “Io so”, come l’ossessivo intercalare usato da Pasolini nell’articolo sulle stragi. Quell’«io so ma non ho le prove» che è diventato il punto di riferimento di chiunque abbia una teoria del complotto ma non gli elementi per dimostrarla. Una foglia di fico della dietrologia spinta. E così il magistrato s’improvvisa poeta. Il poeta viene ridotto a magistrato. Uno di quelli che si mette la toga e inquisisce, come un pubblico ministero qualsiasi. Lui, Pasolini, che dalla magistratura italiana è stato un perseguitato.Un perseguitatoEcco: si può pensare che la verità cercata da Pasolini sia assimilabile a quella giudiziaria solo dimenticandosi della sua vita, rimuovendo ancora una volta il suo corpo. Dal 1949 – quando i carabinieri di Casarsa segnalano la sua condotta «immorale» – al 1977 (dunque anche da morto) – quando il procuratore della repubblica di Milano dissequestra il film Salò e le 120 giornate di Sodoma – Pasolini subisce più di trenta procedimenti giudiziari. «La magistratura – ha riassunto Stefano Rodotà – dà corpo anche alle denunce più farneticanti, e, pure quando lo assolve, non rinuncia a definire oscena (anche se non punibile) la sua opera». Pasolini viene costantemente sbattuto sulle pagine dei giornali e ogni accusa contro di lui viene enfatizzata sino a creare il profilo di uno mostro, un uomo che riassume quanto di più disprezzabile ci sia nel mondo: la perversione, la sporcizia, la corruzione antropologica e sociale.Sarebbe davvero lungo fare l’elenco di tutte le vicende processuali che hanno riguardato Pasolini: le querele subite, le accuse ridicole che gli sono state mosse contro, la critica giudiziaria dei suoi libri e dei suoi film. Ricordo solo quella più assurda: l’ accusa di rapina a mano armata, porto abusivo di armi, omessa denunzia di pistola, per aver tentato di impadronirsi del denaro custodito nelle casse di un bar di San felice Circeo. Secondo il racconto di Bernardino De Santis, il ragazzo di diciannove anni che consegnò la sua deposizione alle forze dell’ordine, Pasolini entra nel suo bar-distributore di benzina alle tre e mezzo del pomeriggio, ordina una coca cola e la sorseggia prima di rivolgergli delle domande che a lui paiono strane. Dopodiché, s’infila una paio di guanti neri, tira fuori una pistola e mette in canna – udite, udite – un proiettile d’oro. È un’accusa comica. Solo che nessuno si mette a ridere. Anzi, la giustizia, se così possiamo chiamarla, farà il suo corso. Sino all’assoluzione. Come è avvenuto per quasi tutti i processi che l’hanno riguardato. Perché in discussione non era ciò che Pasolini faceva: ma ciò che Pasolini era.Il PalazzoÈ un rovesciamento totale, quello di Pasolini: che, da accusato, a un certo punto diventa accusatore. L’imputato è il Palazzo, la politica, così aliena dalla realtà, governata da logiche che rispondono a codici arretrati, da essere lontana mille miglia da ciò che sta succedendo veramente nel Paese. Incapace di accorgersi che il neo-capitalismo ha cambiato non solo la realtà dell’Italia ma proprio gli essere umani, mutandoli antropologicamente. È paradossale, ma l’accusa di Pasolini al Palazzo non è quella di abusare del potere: è quello di non detenerlo più. La responsabilità della classe politica formalmente al potere (cioè la Dc) è il non aver compreso di non contare più nulla, di aver consentito – con questo suo potere fantoccio, superato – che il vero potere radesse al suolo le culture particolari italiane, spazzando via i valori reali del “popolo”, compresi quelli religiosi, per imporre i nuovi valori del consumo, dell’edonismo e della falsa tolleranza (falsa perché in realtà – per Pasolini – l’edonismo, il consumo e la libertà sessuali sono un obbligo sociale, non una scelta). Scrive, Pasolini: «Ciò che il Processo renderebbe chiaro – folgorante, definitivo – è che il contesto in cui governare non è più quello clerico-fascista, e che proprio nel non aver capito questo consiste il vero reato, politico, dei democristiani». Il processo di cui parla Pasolini è una «metafora» che ha il fine di rendere il discorso «comico oltre che sublime (come ogni monologo!) ». Il suo obiettivo principale è far maturare una coscienza di ciò che è accaduto nel Paese. Il processo è un processo di elaborazione di un lutto: il lutto della società arcaico-contadina distrutta dallo Sviluppo (che Pasolini distingue accuratamente al Progresso). «Ora io non chiedo tragedie, e non mi importano le punizioni – scrive –. Ma mi sembra che non si possa delineare una coscienza politica dell’“immagine del nostro avvenire” se non si consolida una coscienza politica scandalosa e fuori da ogni conformismo, di ciò che è stato il recente passato. È solo attraverso il processo dei responsabili – afferma – che l’Italia può fare il processo a se stessa, e riconoscersi».<+titolino_nero>Il vero Processo<+tondo_giust>Il Processo per Pasolini è un rito democratico altissimo. È il momento in cui una nazione elabora la sua storia, riconosce e affronta la realtà. Quando si parla delle conseguenze di questo processo, delle conseguenze pratiche, Pasolini si ritrae: non è quello che ha a cuore. «Perché questa condanna all’esilio, o al confino, senza processo? Perché questa imitazione solo nel momento peggiore, brutale, fascista dello Stato liberale e della cultura occidentale, che, nel suo momento migliore, prevede e include la cacciata di Nixon e il suo processo, istruito se non celebrato? ». La verità che Pasolini cerca con il suo Processo non è la verità giudiziaria, che si basa sui reati previsti dal codice penale. È una verità diversa. Pasolini parla di «indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione di denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri». Individua una «responsabilità delle degradazione antropologica degli italiani», «dell’abbandono selvaggio delle campagne, responsabilità dell’esplosione “selvaggia” della cultura di massa e dei mass media, responsabilità della stupidità delittuosa della televisione». S’incarica di dire cosa gli italiani vogliono sapere, cioè «quali menti e in quale sede sia stato varato il progetto della “strategia della tensione”», «il ruolo della Cia», «quale sia la realtà dei cosiddetti golpe fascisti», «sino a che punto la Mafia ha partecipato alle decisione del governo di Roma». Ma «il nodo della questione» sta nel fatto che gli «italiani vogliono sapere tutte queste cose insieme (…) Fin che non si sapranno tutte queste cose insieme – e la logica che le connette e lega in un tutto unico non sarà lasciata alla sola fantasia dei moralisti – la coscienza politica degli italiani non potrà produrre nuova coscienza. Cioè l’Italia non potrà essere governata».Pasolini agita un simbolo. Sa che non può portare davanti a un tribunale nessuno. Non è quello che vuole. Il suo Processo è un mito. Un’immagine davanti alla quale fermarsi a ragionare. Che – certo, anche legittimamente, perché il discorso pasoliniano si presta a essere frainteso – si può prendere alla lettera, come fanno gli estremisti islamici con il testo del Corano: ma ogni volta che lo si fa non si può che constatare la debolezza delle accuse che vengono mosse realmente. E la loro barbarie, anche. Perché il mito è tale finché rimane fuori dalla storia: come un termine di paragone, un confronto, seppure immaginario, con un altro mondo. Quando invece il mito entra nella non può che farsi farneticazione.