Conclave usa l’irrompere di una scritta in giallo per chiudere la complessa sequenza iniziale. In pochi minuti cresce la sensazione di infrangere il segreto di rituali protetti per secoli. La colonna sonora travalica le immagini in scorrimento veloce, sottolineando, nel violento vibrare degli archi, dialoghi resi scarni dallo smarrimento, e la tensione crescente di un’attesa seguita al distacco.

L’intero prequel è dominato dal senso immobile e crudele dell’assenza: dalla vita terrena, dalle presenze più care, dalle piccole abitudini private. Eppure la generale tristezza, appena incisa dall’urgenza, si incammina inesorabilmente verso la necessità di radunare quanti dovranno eleggere il nuovo papa da ogni angolo del mondo. Diverranno sempre più visibili, nei prelati più importanti, fiamme d’ambizione a lungo nascoste sotto l’ipocrisia. Tra tutti, il cardinal Lawrence si troverà nei fatti solo, di fronte al compito terribile di frugare i segreti di ogni anima, sradicando alberi forti ma ormai ammalati, per salvarne i pochi arbusti capaci di futuro.

Conclave mette in scena, anche se con qualche lentezza e concessioni al colpo di scena hollywoodiano, la vitalità del dubbio contro la sterilità della certezza, chiarendo la confusione storica tra dover essere guida per una comunità abbandonata e voler essere Principe della Chiesa, per brama di potere. Per simmetria estetica e di messaggio, la stessa scritta gialla iniziale precederà i titoli di coda, segnando l’epilogo del film, e chiudendo bruscamente la storia, come chiavistelli e sbarre avevano fatto sequestrando i cardinali, sin da quando, parecchi secoli prima, si era scelto l’atto del conclave per indurli a decidere, a costo di doverli piegare con il freddo di un tetto scoperchiato e pasti sempre più frugali.

E il film, pur nella speranza che lo impregna, è la vicenda di una chiusura, che esclude l’esterno, rischiando di porre Dio in un paradossale e malinconico paraklausíthyron, interrogando vanamente la propria coscienza tra preghiere e menzogne, secondo il voto del silenzio, tradito da quanti sarebbero disposti a uccidere e forse non solo moralmente, per regnare a Roma. Nel sommarsi di misteri da scoprire e consuetudini di ceralacca da spezzare, in due ore prende forma la più complessa successione fra papi mai concepita in pellicola.

Adattamento dell’omonimo romanzo di Robert Harris, Conclave è firmato da Edward Berger, regista svizzero nato in Germania con studi di cinema newyorkesi alle spalle. I tempi volutamente lenti, l’attenzione per i particolari, il simbolismo di inquadrature, espressioni e oggetti di scena lo pone più in continuità

che in rottura con la grande tradizione del cinema europeo, sensazione che cresce col passare dei minuti quando i cambi di passo della trama cedono spazio a monologhi e dialoghi affidati a grandi interpreti di diverse scuole, quali Sergio Castellitto, John Lithgow, Isabella Rossellini, Stanley Tucci. Nel gioco di potere dell’elezione, scandita da fumate nere, bigliettini infilzati e legati insieme e dai giuramenti violati mentre li si pronuncia, si dipana un thriller vero, labirintico come le oscure atmosfere del Vaticano - ricostruito nella maestosità della Reggia di Caserta- e reso plasticamente nel camaleontismo dei personaggi; come è logica, la morte è il punto di partenza, e permette di leggere in filigrana l’onestà, la coerenza, l’umiltà vera o solo artefatta di coloro che per motivi diversi giungono a bruciare come falene nella luce la loro stessa esistenza.

L’arena si stringe intorno al centinaio di cardinali che insieme dovranno eleggere, in fede, il nuovo Pietro. L’alternarsi di esterni e interni è segnato da cieli sempre più coperti, da ombrelli bianchi, dal fumo di sigarette fumate in fretta. I marmi, lo scarlatto alle pareti, le scalinate, le volte affrescate della Cappella Sistina fragilissima e limpida come ogni scelta finale, rompono l’ordinata tricromia del rosso, del nero, del viola. Roma si allontana sempre più come l’approdo da un naviglio che prenda il mare.

Al timone, la figura del Cardinale Lawrence cui Ralph Fiennes conferisce impeto e grazia ultraterreni. Nel volgere di quindici giorni, bisogna rompere l’anello del Pescatore e spingere nel cassetto della memoria un papa molto amato, mancato troppo presto. Tra le insidie curiali e il progressivo accendersi di ambizioni e veti, i rituali della Chiesa vengono percorsi ma anche improvvisamente stravolti, da violente scrollate della vita extra moenia.

L’assedio della curiosità, dell’incertezza, della paura, permea le mura leonine agitando la mensa e le notti alla residenza di Santa Marta, nel salone dello scrutinio e nella sala dalle poltrone azzurre dove contarsi e marcare strategie sui papabili. La guerra - ammesso che sia giusto parlarne senza averla mai vista da vicino- investe tradizione e progresso, accoglienza e ostilità, Clero romano e altre Chiese del mondo. Fuori la Storia non aspetta. E falcia persone senza colpa nel cinismo sanguinario del tempo. E nel salire dello sgomento, nella paura di non essere uniti ne’ adatti, le preghiere saliranno più disperate e sincere, alla ricerca di un segno: sia esso un boato, un raggio di sole alla finestra, una tunica macchiata di sangue e calce.