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Quest’anno è il centenario della Rivoluzione d’Ottobre del 1917. Io però vorrei parlare di un’altra rivoluzione, quella del 1991. Sempre russa: la Russia ha dato al mondo due tra le più grandi rivoluzioni del Novecento. Ma di una, quella del ‘ 17, la Storia ha scolpito le date nella sua timeline; dell’altra, quella del ‘ 91, ce ne siamo presto dimenticati. Era un sollievo, togliersi dai piedi il socialismo realizzato; per il resto, che si fottano.
Provo a dirla così: lo sanno tutti che nel ‘ 17 le rivoluzioni furono due, quella del Febbraio che mise fine allo zarismo, e quella dell’Ottobre, con cui i bolscevichi conquistarono il potere. Ecco, secondo me, quella del ‘ 91 si è fermata alla prima delle due rivoluzioni, al Febbraio, e non ha mai avuto la seconda, quella dell’Ottobre. È una rivoluzione incompiuta. Disattesa, inattuata. Il che, peraltro, ci fa pensare che senza l’Ottobre, quella del Febbraio ‘ 17, che mise fine allo zarismo, ce la saremmo presto dimenticati.
Quando scoppia la rivoluzione del Febbraio ‘ 17, i bolscevichi sono gli ultimi al mondo ad aspettarsela. Lenin, che sta a Zurigo, durante una conferenza a gennaio del 1917 dice: «Non so se noi vecchi – aveva 46 anni, e era nel pieno vigore fisico e in-tellettuale – vedremo mai una rivoluzione». Le ferite del 1905 bruciavano ancora. E quando Pietrogrado insorge nel Febbraio, i bolscevichi non sanno proprio che fare. Quando scoppia la rivoluzione del 91 nessuno al mondo poteva pensare che accadesse.
Sì, gli anni Ottanta avevano fiaccato molte energie sovietiche: sì, la pressione americana era al massimo tra guerre stellari e offensiva ideologica, sì, i polacchi e Solidarnosc e il generale Jaruzelski alla fine non avevano proprio capitolato, sì, Hélène Carrère d’Encausse – che è la mamma di quel magnifico scrittore che è Emmanuel Carrère – aveva scritto tonnellate di volumi in cui studiando l’impero sovietico ne indicava fragilità e implosioni, ma niente lasciava immaginare che tutto si squagliasse come neve al sole nel volgere di dieci giorni. Solo che dei giorni dell’Ottobre 17, li ricordiamo come i dieci giorni che sconvolsero il mondo; i dieci giorni del 91, non ci furono.
Eppure, né un papa polacco che trafficava con gli americani e la Cia per finanziare e sostenere i “suoi” lavoratori purché sconfiggessero i russi; né l’ondata di reaganismo ideologico che aveva conquistato l’occidente e isolato i sovietici ( rovesciando le cose, per quasi tutto il Novecento, erano i sovietici a funzionare da “attaccanti” sul piano dell’utopia sociale); né l’arretratezza tecnologica e produttiva sovietica mentre tutte le risorse venivano ingoiate dall’arsenale militare, o le assurdità dei piani quinquennali per cui c’era ancora penuria di alimenti in un impero che avrebbe potuto da solo sfamare l’umanità; né la diffusione dei samizdat o il “dissenso” che tanto entusiasmava gli europei; niente di tutto questo avrebbe potuto far crollare l’Unione delle Repubbliche Sovietiche Socialiste. Tutto questo, e niente di questo, spiega la rivoluzione del 91. Sono solo circostanze.
Fu il popolo russo a far finire il socialismo in un solo paese. Esattamente come settant’anni prima era stato il popolo russo nel Febbraio a far finire lo zarismo, non la guerra, non le tessere del pane, non l’orribile repressione dell’Ochrana, non i bolscevichi, non i menscevichi, non i socialisti rivoluzionari. Settant’anni prima, le donne operaie tessili e i metallurgici e i soldati- contadini si schierarono insieme e scioperarono e spararono sulla polizia inviata per sparare loro addosso. Settant’anni dopo, fu la gioventù di Mosca, e gli anziani combattenti della Grande Guerra Patriottica che aveva sconfitto il Nazionalsocialismo, e le matrioske con le borse della spesa con due patate e tre cipolle, e gli impiegati e la gente qualunque che tirava avanti a cetrioli e vodka, a schierarsi contro i carri armati dei generali golpisti e a portare dalla loro parte i soldati. Gorbaciov, che è stata una figura immensamente tragica, era ormai fuori gioco, agli arresti. La gente non si mosse per Gorbaciov. La gente si mosse perché non ne poteva più. E sperava di meglio. A noi europei piaceva molto Gorbaciov. Piaceva per quel che toglieva, non per quello che metteva, perché, per la verità, a aggiungere aggiungeva nulla. Le riforme di Gorbaciov – e la perestrojka e la glasnost – provavano a mettere un po’ d’ordine in un complesso militare e produttivo e in una burocrazia che erano ormai fuori controllo, autoreferenziali in maniera assurda. Sembravano molto “occidentali”, le sue riforme, e per questo ci piacevano: Gorbaciov sembrava un socialdemocratico. Finalmente, un socialdemocratico al potere in Russia. Non c’erano riusciti nel 1905, non c’erano riusciti nel 1917, forse era il momento. E aveva ritirato l’esercito dall’Afghanistan, e aveva firmato i trattati di smantellamento di armi nucleari e gli avevamo dato il Nobel per la Pace. Ma i russi devono avere un’anima refrattaria alla socialdemocrazia, una cosa da meccanica tedesca. Così, Gorbaciov aveva mandato poi l’esercito a Tallinn e Vilnius, quando i baltici avevano pensato di poter fare da soli: la politica dei due forni, da una parte Eltsin e Shevardnadze, dall’altra i conservatori del vecchio potere comunista e in mezzo lui a traccheggiare, a un certo punto non aveva retto più. La Storia correva, ormai era una valanga. Ecco, è questo il punto. La rivoluzione del Febbraio 17 toglie, quella dell’Ottobre mette. E così, nel 91 l’insurrezione che blocca i generali golpisti toglie, ma poi nessuno mette niente. Potevamo, noi occidentali, mettere al posto dei russi? Forse, in fondo la rivoluzione dell’Ottobre era stata un faro per il mondo, mica solo per i russi. Ma cosa accadde, allora? Mentre gli americani gongolavano, i comunisti occidentali andarono nel panico. Spagnoli, francesi e italiani avevano provato a mettere in piedi una loro fisionomia, l’eurocomunismo, ricordate? Noi non siamo propriamente come quelli – i russi. Che cosa fossimo, però, non si era mai capito bene – la fine della spinta propulsiva dell’Ottobre: il cammino era sempre a togliere, a prendere le distanze, non a dichiararsi qualcosa, per qualcosa. Poi, ci inventammo la terza via, che è come dire un terzo occhio, una terza gamba, insomma una cosa da circo Barnum. Ma nessuno capì la questione centrale che poneva il 91. Che non era la fine del comunismo. Era la fine dello Stato.
Le due grandi rivoluzioni russe, del 17 e del 91, ruotano intorno la questione dello Stato. Prendere la macchina dello Stato e rivolgerla all’eguaglianza, alla giusta distribuzione, all’equa ripartizione, alla razionale programmazione: i bolscevichi – la loro lucidità era pari alla semplicità e alla determinazione di questo concetto – qui sono davvero giacobini e illuministi, credono nel potere della Ragione. Il Novecento è stato il secolo dello Stato, il secolo in cui si è compiuta la filosofia hegeliana, e marxista ( almeno di una parte di Marx), dello Stato, dell’interesse collettivo, pubblico, nazionale sopra quello individuale. E non solo il Novecento europeo: cos’altro furono il keynesismo e il New Deal rooseveltiano, se non, contro la vigenza selvaggia del mercato, l’idea che ci potesse essere un “regolatore” che subordinava gli appetiti individuali al supremo interesse della nazione, della collettività?
I russi erano solo un popolo soggetto alla violenza del potere dittatoriale stalinista prima e sovietico poi? Ma neanche per idea. I russi parteciparono a quello straordinario e tragico “laboratorio” che fu l’Unione sovietica per tutto il Novecento.
L’avevano fatto loro, d’altronde. Poi – e ce ne volle perché diventasse coscienza collettiva – si accorsero che non funzionava.
Lo Stato non funziona più.
L’interesse pubblico – organizzato, disciplinato, dispotico, programmato – non funziona. Impone tragedie tremende, e non funziona. E il mercato, con le sue orribili regole di diseguaglianza e sfruttamento, invece funziona. Impone tragedie tremende, ma funziona. Questa è stata la rivoluzione del 91. Quello che è mancato – e che invece ci fu nell’Ottobre del 17 – era il passaggio successivo: nel 17, finito lo zarismo, si puntò alla dittatura del proletariato, ovvero a che si prendesse lo Stato per farlo degli operai e dei contadini. E della cuoca, avrebbe aggiunto Lenin.
Nel 91 invece nessuno aveva la più pallida idea di cosa fare, non c’erano i “nuovi bolscevichi” con un loro programma: Eltsin in piedi su un carro armato davanti al Parlamento non era Lenin, tornato col suo treno blindato, davanti allo Smolny, la Duma. Perché nessuno ha la più pallida idea di cosa fare, dopo aver capito che lo Stato non funziona. E dopo aver capito che non ha nessuna intenzione di sacrificare la propria individualità, la propria identità all’interesse collettivo. Come si rapporta il centro con la periferia, ciò che ha bisogno d’essere programmato e ciò che deve esse lasciato alla spontaneità, ciò che sta sopra e ciò che sta sotto e come chi sta sotto controlla chi sta sopra, ciò che può essere messo assieme e ciò che deve rimanere presso di sé, quanto, quando e come delegare e quanto, quando e come riappropriarsi della propria decisione – insomma, il potere degli uffici, la burocrazia, la parola il cui suono crea scandalo e allergia ma che è la questione centrale del nostro tempo, e il rapporto con l’autogoverno. Così, invece ha vinto il mercato, il liberismo, comunque lo vogliate chiamare il capitalismo. Per rinuncia, si potrebbe dire; perché un’altra squadra non si è presentata.
Quello che è venuto dopo, quello che vediamo adesso – i populismi, l’antipolitica, i neonazionalismi, tutto questo ciarpame che segna la politica del nuovo millennio, i leghismi regionali, etnici, razziali – e anche quello che non vediamo – un’Europa politica come spazio di democrazie e libertà e diritti e benessere, che arriva da Lisbona a Vladivostok, o una globalizzazione “gentile” che distribuisce a tutti i suoi vantaggi e non solo a quelli che sono ai vertici della piramide sociale – nasce da una mancata traduzione politica, da un mancato “inveramento”, come dicono i filosofi, della Seconda Rivoluzione Russa del Novecento. I nazionalismi, i populismi tornano all’idea di un “interesse pubblico” prevalente, che sia nazionale, etnico, razziale. Controllo della produzione, controllo dei movimenti finanziari, controllo dei movimenti di merci e uomini ( migrazioni), penalizzazione di tutto ciò che esubera l’interesse pubblico, la comunità etnica, nazionale o regionale. I neonazionalismi sono questo: il socialismo in un solo territorio. È paradossale, ma sembra proprio il programma dell’americano Trump. L’abbiamo già visto. It doesn’t work.
Solo che la Storia – che non è finita, è proprio del ‘ 91 il libro di Fukuyama – funziona così, se la timeline non va avanti, torna indietro. Come in Russia. Anche se sa che non funziona.