Un albero fiorito di bianco, un masso, prati attraversati da case borghesi. Com’era questa stessa scena in luoghi e anni diversi? E in epoche remote quella natura era rigogliosa o ostile? Era uno scenario diverso e silenzioso, l’abito adatto alla storia da compiere. Robert Zemeckis dirigendo Here lo mostra plasticamente, sorretto da un uso massivo dell’Intelligenza Artificiale Generativa.

Davanti agli occhi sfilano rapide scene e ambientazioni, concatenate le une alle altre, aperte e chiuse come icone in un sistema applicativo. Le voci, i sogni, le frustrazioni di chi porta avanti la vita nell’epoca che gli è data, tracciano storie fatte riemergere dal mare del tempo. Here nel suo vortice visivo mostra la storia come fatto umano nella natura e nel tempo, accomunando grandi personaggi a Jane Doe e John Smith qualsiasi; ne scandaglia le relazioni nel profondo in un attimo, ma poi risale. Il software sospende l’incredulità in una realtà parallela che consente la visione in parallelo di tempi e spazi altri dal nostro.

Un viaggio allo specchio, che punterebbe ad avvolgere spettatori e attori in una comune occupazione di spazi ed energie emotive, dove desideri, pulsioni, inclinazioni vengono alla luce, vivono e sfumano, per poi rivivere in qualcos’altro, altrove. Il passaggio tra spazio e tempo rende fluide e vivide epoche lontanissime, umanizzando sfide quotidiane e insicurezze delle persone di fronte al destino.

Zemeckis che in Ritorno al Futuro aveva giocato con spazio e tempo, sorretto da scrittura e interpreti, qui sceglie però ideologicamente di limitare le azioni. Ne deriva un inedito Sim Life in pellicola, cioè un videogame in interni, dove la ripresa a camera fissa crea progressivo, voyeuristico disagio. Ma se horror e hardcore celebrano corpi esposti e violati, scatenando reazioni primarie ma opposte, qui la camera fissa stempera tutto, ed è un peccato. L’intuizione di partenza perde in parte ritmo. Here avrebbe potuto essere vincente aggredendo lo spazio, piuttosto che presidiando letteralmente il rettangolo di gioco, e questo, in tempi nei quali si chiede al pubblico di entrare in scena, è un vero azzardo. L’impianto formale resta sofisticatissimo ma algido, nel tempo precludendo ogni sussulto d’identificazione.

Le vicende d’innamoramento, speranza, dolore, frustrazione di chi è in scena restano velate da un diaframma invisibile che blandisce la vista e spegne il cuore. Robin Wright e Tom Hanks giungono in scena con classe ma tiepidamente, senza annullare la sensazione di dejà vu e frenando il necessario innamoramento del pubblico. Va detto che gli snodi esistenziali dei genitori di Richard/ Tom Hanks raccontano bene molti passaggi del secondo Novecento, mentre dagli anni Settanta in poi emergerà con forza proprio il punto di vista dei loro figli e nipoti. Queste tre generazioni di americani, maltrattate da problemi lavorativi, economici, affettivi, testimoniano che con amore si può superare tutto, sfiorire dell’American Dream compreso.

Il ritmo cresce, le vicende acquistano maggiore complessità emotiva, gli interpreti vengono verso la macchina da presa quasi a voler rompere la quarta parete, eppure la sensazione resta di incompiuta bellezza. I tableaux vivants e i bozzetti della prima parte, in consonanza con l’abilità grafica di Richard/ Hanks, trovano nel tempo conclusione, ma zavorrano il film, e l’intuizione di rendere reale protagonista tra tempo e spazio, una casa. Interessante, invece, è scavalcare la lunga tradizione horror, e fare di un’abitazione l’elemento simbolico del rinnovamento, della speranza, della protezione ma anche dell’alienazione della nazione americana, e di quanto poteva essere per il suo popolo e invece non è stato.

La prospettiva, escluse alcune scene in esterni, è dalle grandi finestre ad arco sulla strada, efficaci nel testimoniare riti, suoni e mode di ogni epoca, ma pur sempre ancoraggio visivo fisso, così come certi elettrodomestici, presenti oltre ogni credibile durata. Il film convince nella narrazione dei piccoli grandi strappi della vita, mentre risulta più frenato nel rappresentare gioia o rabbia, irrigidito dall’uso del software e dalla necessità di usare una dimensione teatrale. Mura dense di storia hanno scrutato ogni anima al loro interno, in cambio chiudendo a chiave altri sbocchi narrativi, mentre con mezzi produttivi di gran lunga inferiori un buon B movie avrebbe osato con coraggio.

L’intento resta di rassicurare, a volte debordando, per inseguire una ricomposizione finale non richiesta, finendo col diluisce tutto in un estetizzante, dolciastro teatro visivo. La storia americana non può essere solo incertezza economica o pranzo del Ringraziamento. Little Big Horn, Dallas e New York 2001 valevano almeno un minuto di girato. L’immaginario non nella virtualità, ma proprio tra le mura di casa raffronta piccole vite e grande Storia. E non solo durante l’Ed Sullivan Show con i Beatles.

Al di là delle notevoli interpretazioni di Hanks e Wright forse va ripensato questo completo affidarsi alla tecnologia, che cancellando macchie e imperfezioni della realtà, togliendo lattice dai volti e muffa alle pareti, finisce con il riporre l’arte nel cassetto, perché non più necessaria. Per affrontare la contraddittoria complessità della vita umana, nelle aule di giustizia, sui campi da calcio, come sul set, crediamo valga rischiare l’errore, preferendo a una piatta dittatura del nitore, una democrazia per chiaroscuri. Here è un buon film, ma avrebbe potuto essere molto di più a patto di uscire da sé stesso. Il pubblico uscito dalla splendida sala 2 del Savoy contava poche persone commosse.