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Mi sono avvicinato con una vena di scetticismo, e di diffidenza, al libro di Edward Luce Il tramonto del liberalismo occidentale ( introduzione di Gianni Riotta, Einaudi, pagine 215, euro 17). Per due motivi: prima di tutto perché è da quando il liberalismo esiste che si parla di una sua crisi e di un suo tramonto ( basti considerare la vasta letteratura sul tema a cavallo fra le due guerre mondiali nel secolo scorso); e poi perché, ad un altro livello di analisi, sono troppo filosofo per non sapere che la retorica del tramonto ha poco senso: in un’ottica storica, ogni tramonto è l’inizio di qualcosa di nuovo che casomai, con gli occhi del presente, nemmeno vediamo.
Ma tant’è! Leggendo il libro di Luce, che è un giornalista del “Financial Times” ed ha collaborato come speech writer con l’amministrazione Clinton, ci si accorge che non si tratta di una riflessione sui massimi sistemi ma semplicemente di una ricognizione a tutto campo sugli equilibri geopolitici globali alla luce di un presupposto non dimostrato, anzi abbastanza infondato: che il liberalismo occidentale coincida, né più né meno, con quel sistema di potere, politico ed economico, che ha nel dopoguerra le democrazie di questa parte di mondo.
In verità, anche se sicuramente il principio liberale ha avuto una bella rivincita dopo il predominio dei totalitarismi negli anni Venti- Trenta, è pur vero che esso è dovuto venire a compromessi col principio democratico e anche con quello socialdemocratico (“democrazia illiberale” non è affatto un ossimoro, come pensa e scrive Luce). Un nobile e proficuo compromesso, non c’è dubbio, almeno per il periodo che concerne i cosiddetti “trenta gloriosi”, cioè i tre decenni successivi alla seconda guerra. Ma un compromesso che in fin dei conti, ad avviso di chi scrive, ha immesso nelle società liberali un elemento spurio che si è autoriprodotto come un tarlo ed è cresciuto sempre più fino a rendere sempre più asfittici gli spazi di libertà e a generare la crisi attuale.
Non ne faccio semplicemente un discorso di statalismo e antimercatismo, ma più in generale di quella hybris programmatoria e razionalizzatrice che ha pervaso tutto l’Occidente e di cui l’Unione Europea, il cui principio guida pure tanto ci sta a cuore, è con la sua inefficiente ottuità burocratica metafora e paradigma. Lo stesso libro di Luce è pervaso di questo spirito, non trovando egli di meglio, dopo aver dipinto un quadro a tinte cupe del nostro mondo, che chiedere nuovi interventi e nuove leggi “regolatrici” ( e anche redistributrici in senso forte delle ricchezze prodotte) che alla fine castrerebbero proprio quello che è l’elemento essenziale dello spirito occidentale: la liretto bertà d’intraprendere e di creare il nuovo in modo anche anarchico da parte degli individui.
Le tasse diventano perciò il grimaldello con cui raddrizzare il mondo: “i governi dovrebbero tassare le cose dannose, come le emissioni di carbonio, e non le cose buone, come i posti di lavoro”. Fa da pendant a questa l’ idea, più o meno inconscia, che la grande politica possa mettere in ordine, sol che lo si voglia, le cose che non vanno in questo mondo. E da essa la sicurezza dello scenarista ( direi una vera e propria professione dei nostri tempi: tutto sommato acquisibile anche a buon mercato) che prevede “dove va il mondo”, di- menticandosi completamente dell’evidenza che la storia umana è intrisa di imprevidibilità ( l’altra faccia della libertà individuale) e che le previsioni a lunga scadenza sono fatte soprattutto per essere smentite. Non fosse altro che per la legge delle conseguenze non intenzionali che è propria delle azioni umane. Eppure, Luce è sicuro, ad esempio, che “l’effetto finale dell’autentica - intesa in contrapposizione a quella retorica - agenda economica di Trump sarà quello di aggravare le condizioni economiche che hanno portato alla sua candidatura”.
In ogni caso, il libro di Luce è una buona summa della “narrazione liberal”, non liberale, che è poi, a ben vedere, l’elemento che è entrato in crisi oggi, sia per la comparsa sulla scena del mondo di nuovi protagonisti non occidentali sia per il maturare all’interno del nostro stesso mondo di posizioni genericamente dette “populistiche”. Le quali andrebbero prima di tutto differenziate e capite e poi assunte forse, là dove è possibile, in dosi omeopatiche e curative. In verità, da questo punto di vista, il libro di Luce comincia una seppur timida autocritica dal punto di vista liberal. Egli più volte parla dell’incapacità che i leader democratici e progressisti hanno avuto di capire le esigenze della gente semplice, da cui si sono allontanati in nome di una più tranquillizzante e poco costosa testimonianza a favore dei “diritti delle minoranze”: “a un certo punto degli anni Settanta, la sinistra occidentale abbandonò la politica della solidarietà per abbracciare quella della liberazione personale”. Altre volte, però il classico elemento della “superiorità morale” emerge: ad esempio quando, parlando dell’invisa Russia di Putin, si dice che l’autocrate al potere non ha bisogno di sopprimere la libertà di espressione più di tanto, al contrario di quel che avviene in Cina, perché alla fine quel che il popolo cerca è solo panem et circenses. Le televisioni occidentali arrivano puntualmente in Russia, osserva Luce, ma il telecomando dei telespettatori si sposa automaticamente sui programmi di varietà e di intrattenimento volgare.
Una vera e propria ossessione del nostro, che monta nelle pagine finali del libro, è rappre- sentata da Donald Trump. Il quale, ovviamente, ha ai nostri occhi buoni motivi, sia di sostanza sia di immagine ( e mai come in una democrazia la forma è sostanza), per essere criticato. Al neopresidente americano si imputa un po’ di tutto, ma non ci si perita di scendere nei dettagli del suo programma. Il quale, a ben vedere, fatta la tara di tutta la scenografia, ad un anno dal suo insediamento alla Casa Bianca, sembra in fin dei conti rispettato. Ed è in effetti proprio questo il punto: Luce, nel parlare di “tramonto del liberalismo”, si ferma sui contenuti del programma e della politica di Trump convinto che il “liberalismo” sia solo una determinata politica, quella che a lui sta a cuore. Non ponendosi da un punto di vista “metapolitico”, egli non coglie quindi il lato “liberale” positivo, fra i vari politici negativi ( in prima istanza il protezionismo), dell’elezione del magnate texano alla Casa Bianca ( che comunque, anche da un punto di vista politico, qualche merito pure lo ha, avendo ad esempio rotto, sicuramente in modo cialtronesco, l’egemonia assoluta che sulla mente americana aveva il politically correct).
Essa, infatti, dal lato della composizione delle classi dirigenti, e del sistema di potere dominante, ha segnato una profonda rottura o rivoluzione, dimostrando come il potere americano sappia ancora garantire la contendibilità dello stesso e quindi l’alternarsi e la “circolazione” delle élites. Da un punto di vista liberale, infatti, è secondario chi conquisti il potere e che tipo di politica attui ( almeno ovviamente che non sia manifestamente lesiva della libertà di espressione e metta in gioco le libertà fondamentali). Ciò che è più importante è che ci sia la possibilità, per l’elettore, di mandare a casa, secondo procedure, appunto, “democratiche”, i propri governanti. Nonché di limitarli nel loro potere, quando sono in carica, secondo lo sperimentato sistema dei “pesi e contrappesi” istituzionali. Il fatto è che, per la conformazione delle cose, anche il miglior governo, quando troppo si protrae, si sclerotizza e diventa un sistema di potere assoluto. E, come diceva un grande liberale ottocentesco, lord Acton, se il potere in sé corrompe, il potere assoluto corrompe assolutamente.
Ora, un po’ di aria nuova, di spoil system radicale, di rimescolamento delle carte, nella democrazia americana era proprio necessario. Basti solo pensare al fatto che essa era ormai finita da qualche decennio, si può dire con un po’ di esagerazione, nelle mani di due sole famiglie o clan politici: i Clinton e i Bush. Vista in quest’ottica metapolitica, anche la presidenza Trump ha una sua “razionalità”. E, seppure debba essere criticata aspramente in certi suoi punti programmatici, non può essere demonizzata e condannata politicamente per motivi morali. Il problema, più generale, è però, a me sembra, che almeno da un po’ di tempo, l’élite giornalistico- culturale occidentale, di cui Luce è sicuramente un importante rappresentante, è scesa in campo ed è diventata partigiana e faziosa come poteva esserlo un tempo chi scriveva su un giornale di partito. Il vecchio monito a separare i fatti dalle opinioni, irrealistico e forse velleitario ma denotativo di un’etica professionale auspicata, è caduto in disuso e non c’è più. Perché la “ribellione delle masse”, che le menti pigre chiamano genericamente “populismo”, c’è sicuramente stata, e per un liberale si tratta di un male. Ma essa è coincisa, e anzi forse è stata preceduta, da un altrettanto radicale “tradimento delle élites”. E’ da qui, credo, che bisogna ripartire.
Alla fine si può dire, in buona sostanza, che il quadro attuale del mondo rompe tante certezze. E che il libro di Luce è prima di tutto la certificazione di un disagio e di uno stato d’animo, del disorientamento che deriva dalla perdita di certi cardini in cui operavamo. Piuttosto che chiudersi a riccio e rimpiangere il passato che fu, sarebbe forse opportuno rimettersi a studiare seriamente depurando la mente dagli schemi mentali acquisiti. Cercando di contribuire tutti, nel proprio piccolo, a creare nuovi spazi di libertà, nella speranza che le forze emergenti si incanalino lungo sentieri praticabili. Il liberalismo non nasce e non tramonta, ma è null’altro che la risposta di libertà che la coscienza umana dà di volta in volta alle sfide che la realtà, sempre in movimento, gli pone di fronte.