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Suo padre lo aveva chiamato Massimo per via dello scrittore Maksim Gor’kij. Gor’kij era stato a Capri prima della Rivoluzione ed era noto e amato in Italia. Roberto, il padre di Massimo, lo amava soprattutto perché era uno scrittore proletario, del tutto diverso dagli intellettuali: «Mio padre odiava gli intellettuali interventisti», mi spiega Massimo Picchianti, Gor’kij gli sembrava la loro antitesi perfetta.
La casa dove abitavano è l’ultima costruzione prima di Porta Latina. Oggi è un villino restaurato, silenzioso, avvolto nell’aria umida, in quell’atmosfera sospesa che si addensa sulle case prossime alle mura; una volta doveva esserci più movimento, ragazzini, più rumore. A via Latina, chini sulla culla di Massimo neonato, ci sono suo padre e sua madre, Roberto e Dora, lui ferroviere, lei ex operaia, tutti e due militanti comunisti; suo nonno e sua nonna, Enrico e Irene, lui ex ferroviere socialista, ex dirigente sindacale, lei che una volta era una sarta e ora si occupa dei nipoti. La casa di via Latina ospita a volte compagni di Enrico, a volte compagni di Roberto, in quelle stanze si rappresentano i conflitti, le diffidenze, i rancori interni alla sinistra italiana.
Dei primi anni della sua vita, anni di guerra, Massimo ricorda discorsi, atmosfere, qualche volta fatti. Lo incontro in una mattina di dicembre in un appartamento all’altro capo della città, a Torrevecchia, il suo rifugio temporaneo quando da Parigi torna a Roma, un appartamento stipato di libri, di ritagli di giornale: somiglierebbe a un archivio non fosse tanto luminoso. Con insistenza, Massimo torna sul tema della violenza e della guerra: sua madre era adolescente durante la prima guerra mondiale, attraversare quel massacro l’ha portata verso il comunismo, lui è un bambino durante la seconda ma negli anni della guerra matura una scelta che si farà chiara poi. «Attorno all’8 settembre del 1943», mi racconta, «c’è un episodio che forse mi ha marcato per sempre. Mi ha prodotto una nausea fisica della guerra. Avevo sei anni. Quando gli italiani sono stati sconfitti, nelle zone dove eravamo, a Porta Latina, i tedeschi bruciavano le “scatole di conserva”, così la gente chiamava i carri armati italiani, con i missili da mano, i panzerfaust. C’era lì a Porta Latina un deposito di generi alimentari dell’esercito italiano, un deposito abbandonato. Eravamo andati, io e le mie cugine, le figlie dello zio Sandro – l’invalido della prima guerra mondiale che era diventato comunista - nel deposito abbandonato a prendere qualcosa da mangiare, a me avevano dato da portare un sacchetto di zucchero. C’era un tedesco che ci si è messo davanti per farci capire che dovevamo lasciar tutto lì, che era roba loro. Questo ragazzo tedesco aveva addosso la tuta mimetica, l’elmetto e sparava in aria. Arriva un italiano, aveva un cappello a larghe tese, e gli spara. Il tedesco cade. Gli è uscito un fiotto rosso vivo dalla bocca, si trascinava per terra. Le mie cugine avrebbero voluto aiutarlo, e anch’io. Mi ha segnato, non so descrivere la sensazione, l’empatia verso quell’uomo che stava lì e si trascinava con il sangue che sgorgava dalla bocca. Son venuti preti, il seminario era lì vicino, i preti irlandesi che ci hanno detto: andate via, verranno altri tedeschi, possono fare anche una strage. E i tedeschi vennero e sparavano a zero. Abbiamo fatto a tempo a nasconderci dietro i muri. Avevamo i serbatoi dell’acqua sul terrazzo e ce li bucarono tutti. Mia nonna Irene venne a prenderci, a tirarci via da questo posto dove eravamo nascosti».
PRIMA PUNTATA | "Mamma e papà diventarono comunisti per sete di vendetta"
Massimo ricorda Irene e Enrico come i suoi punti di riferimento: «Ma Enrico è vissuto troppo poco». È morto due anni dopo la liberazione. «Mio nonno e mia nonna, erano fiorentini, gente aperta, gente non settaria. La violenza come arma politica non gli piaceva. Nonna Irene è stata quella più vicina a me, i miei genitori erano occupati con la politica, mio padre poi con me non parlava molto. Irene non amava il protagonismo, ma è stata una testimone del suo tempo. Leggeva e rifletteva. Era innamoratissima del marito, stava ad aspettarlo dietro le persiane quando tornava tardi la sera. È stata nonna Irene nel dopoguerra a raccontarmi dei primi anni del fascismo, delle preoccupazioni che aveva per mio padre ragazzo. Lui a quel tempo frequentava gli Arditi del popolo, che avevano per simbolo un teschio identico al teschio dei fascisti, cambiavano giusto i colori». Gli Arditi del popolo ( leggo su Roma combattente di Valerio Gentili, pubblicato nel 2010 da Castelvecchi), nascono dalle associazioni dei combattenti che nel dopoguerra, oltre alle destre nazionaliste, raccoglievano le sinistre interventiste, anarchici, anarcocomunisti, repubblicani, che avevano l’idea che la rivoluzione sarebbe stata lo sbocco necessario della guerra; non erano guardati di buon occhio dai socialisti come Enrico, pacifisti rigorosi. Nel 1921 gli Arditi del Popolo vengono fondati, li seguirà anche gente per nulla interventista ma che ora crede alla necessità di combattere i fascisti con ogni mezzo. «Da San Lorenzo, mi raccontava nonna, mio padre se ne andava con gli Arditi del Popolo a far sassaiole con i fascisti dalle parti della Caserma Macao, a Castro Pretorio. A lei sembravano più guerre di bande che lotte politiche. C’era un amico di mio padre che in quelle battaglie era diventato cieco e lei lo paragonava a quell’altro ragazzo che aveva perso gli occhi in guerra e si era ucciso, le sembravano storie molto diverse. Capiva l’ira di chi era rimasto mutilato in guerra, ma pensava: con la violenza non si risolve niente. Durante la Resistenza, che in casa ci fossero riunioni, che i miei distribuissero copie de L’Unità e volantini, che mio padre uscisse per fare scritte antifasciste a mia nonna andava bene. Erano gli scontri precedenti che non le piacevano».
Nel 1921 quando nasce il Partito comunista Roberto è molto giovane. Dal momento in cui in Russia la rivolta libertaria dei marinai di Kronštadt viene soffocata da Tuchacevskij e il comunismo di guerra, le confische impoveriscono le campagne, fino alla sconfitta dei bianchi sostenuti da Gran Bretagna Stati Uniti e Francia, attraverso gli anni della carestia che uccise sei milioni di persone, oltre la Nep, la Nuova politica economica che restituì temporaneamente ai contadini una certa libertà d’impresa ( ma era una libertà a tempo) fino all’avvento di Stalin e oltre, la Rivoluzione russa fu al centro di ogni conflitto nella casa a via Latina. Quando cominciano ad apparire alle pareti ritratti di Stalin, Enrico è irritato, è refrattario ad adorazioni e liturgie.
Nel 1937, Roberto sposa Dora. «Secondo mio nonna, mia madre era una fanatica. Nonna Irene mi racconta i dissidi. Il fratello di mia madre dal Veneto viene a Roma e va a lavorare all’Atac. Questo mio zio giustificava il fascismo come difesa contro i rossi che bruciavano le chiese. In Russia Tuchacevskij sedava le rivolte dei contadini con i gas asfissianti, i bolscevichi confiscavano la terra. Questo qua cattolico contadino veneto litigava con la sorella. Mia nonna non giustificava certo i fascisti, il fratello di mia madre era proprio iscritto al partito fascista: questa era una cosa che faceva diventare mio padre furioso. C’era un altro fascista che inquietava la famiglia, era il fi- di mia cugina Valeria che si sentiva conquistatore e inveiva contro le “inique sanzioni” causate dall’uso dei gas nella guerra d’Etiopia. Anche il nostro vicino di casa era orgoglioso di aver partecipato alle rappresaglie contro gli slavi in Dalmazia. Mio nonno nelle polemiche con mio padre diceva: il fascismo è anche colpa vostra, il terrore dei rossi mette paura alla gente che vede nei fascisti una rassicurazione. Mio nonno era stato esonerato dalle ferrovie, perché era antifascista, e lui e i suoi amici non erano d’accordo con mio padre su quello che stava succedendo in Russia. Mio padre giustificava il comunismo di guerra, gli eccidi, le confische. Per lui l’industrializzazione, la costruzione dell’industria pesante in Russia era la cosa più importante. I fratelli di mia madre li definiva piccoli borghesi, piccoli proprietari: bisogna ammazza’ pure a voi come in Russia, gli diceva».
Quello che per Massimo è inaccettabile è la legittimazione della violenza. Aveva quasi sei anni, tutti vissuti in guerra, ma la violenza non gli sembrava normale, «Ero grandino», mi racconta, «mi ricordo i carri armati che passano sotto casa per andare a Porta San Paolo fatti fuori dai tedeschi con i panzerfaust. Con i carrarmati abbandonati i ragazzini ci giocavano». Ancora adesso mentre me lo racconta, gli monta un’ira e subito dopo uno sconcerto, se la prende anche con i suoi coetanei di allora, scuote la testa: «Dipende da come uno è fatto. Loro si divertivano, facevano finta di far la guerra, la guerra era reale e loro ci giocavano lo stesso. Mi ricordo zia Enrichetta, la sorella di mio padre che arriva a casa nostra insanguinata. Il bombardamento l’ha sorpresa mentre sta a via l’Aquila: era andata con la tessera in un negozio a prendere qualcosa». Il bombardamento del 19 luglio oltre San Lorenzo, oltre lo scalo, colpisce il Pigneto- Prenestino, vicino al comprensorio della cooperativa invalidi dove abitano Sandro ed Enrichetta. «Mio padre se la porta a casa nostra con tutta la famiglia. Dalla nostra finestra si vedeva la Porta Latina, ce l’ho sempre impressa, a volte la disegno. Già prima del bombardamento c’erano gli aerei che passavano ad altra quota. Noi dalla terrazza assistevamo alla battaglia nel cielo. C’erano le formazioni geometriche, tutte le nuvolette che esplodevano e lanciavano le loro schegge». Il 25 luglio, Massimo prende parte all’euforia collettiva per l’illusione della fine della guerra e del fascismo. Suo padre se lo porta dietro: «I fasci littori vengono distrutti. C’era la sede della Gil, la Gioventù Italiana del Littorio, i vetri venivano rotti a sassate. I busti di Mussolini buttati di qua e di là. Mio padre mi portava con sé in giro, così io assistevo alla distruzione dei simboli fascisti. Era un momento di entusiasmo. C’erano i vicini fascisti che venivano quasi a raccomandarsi, erano diventati deferenti. Dopo la liberazione la sede della Gil diventerà la sezione del Pci». È la sezione che più avanti negli anni frequenterà: «Dopo l’ 8 settembre, con l’occupazione tedesca, mio padre non è andato più a lavorare. Stava in clandestinità. Lo vedevo che usciva con i bidoni con le tinte, non sapevo che andava a far le scritte. Avevamo la stufa e quando s’avvicinava la ronda tedesca bruciavano i giornali».
( 2- continua)