PHOTO
Il frastuono. Alcuni hanno cominciato a sentirlo quasi da subito, per altri c’è voluto qualche giorno, o delle settimane. Ma per la maggior parte delle persone non accadde mai. Ed è forse per questo che alla fine le cose sono andate così.
Teo era arrivato alla conclusione che potesse essere considerata una fortuna non accorgersi di quel rumore. Quel rombo crescente che ti inchiodava al muro, che ti faceva vibrare il respiro.
Pensò al respiro. La gente, fino a poco prima di quei giorni, dava per scontato il respiro. Pensò a quanto fosse diventato prezioso adesso. Si chiese se esistesse un ideogramma che desse forma al suono del respiro. Probabilmente, si.
E’ un po’ come ingoiare una S ed espellere una F, pensò. Ed il pensiero lo fece sorridere. Immaginò un’insegnante di yoga che mentre portava elegantemente le braccia sopra la testa ti invitava ad inssspirare, e mentre le riportava verso la vita ti chiedeva di efffpirare.
Stavolta rise, ed il suono della sua risata echeggiò nella stanza vuota. Si sentì strano. Ma era poi così strano ridere per un proprio pensiero?
Forse no, ma non era una cosa che gli capitava molto spesso.
Un'altra cosa che non gli capitava molto spesso era fermare un proprio pensiero come gli stava capitando di fare proprio in quel momento.
“Fermarlo” non era la parola giusta. Di seguirlo, ecco, rendeva di più l’idea. Gli capitava da un po’, di seguire i suoi pensieri. All’inizio non fu una cosa cosciente, o voluta, semplicemente si ritrovava “sovrappensiero”.
Da ragazzino, la sua mente prendeva a viaggiare, sognando ad occhi aperti la bella ed irraggiungibile ragazza del primo banco, o le avventurose scorribande che immaginava di fare insieme al suo migliore amico nei sabati pomeriggio di primavera, o a chissà cos’altro, e puntualmente arrivava qualcuno a riportarlo alla realtà. Non distrarti! Resta con i piedi per terra!
Come se fosse un crimine. Come se fosse pericoloso immaginare di fare le cose che amiamo. Ora invece era diventato un esercizio utile alla sua sopravvivenza. Teo, aveva scoperto che seguire i suoi pensieri poteva condurlo in luoghi inaspettati, a scoperte e intuizioni capaci di squarciare il velo che aveva davanti agli occhi. Aveva scoperto di avere un velo davanti agli occhi, e quel velo deformava le sue percezioni. Aveva scoperto di essere un uomo indottrinato.
Era un po’ un paradosso che si sentisse libero per la prima volta dovendo restare confinato in 65 metri quadri. Era un pensiero assurdo, ma sentiva di capire molte più cose, da quando nessuno gli spiegava come le cose dovessero andare. Cominciava a rendersi conto dell’irrilevanza della maggior parte delle cose di cui sentiva di non poter fare a meno. Si rese conto di essere stato un uomo abitudinario, intrappolato negli schemi.
Si chiese se non lo fosse ancora, se la sua mente non gliene stesse creando di nuovi per rendere più sopportabile l’esistenza. Si chiese se l’esistenza fosse poi davvero una cosa insopportabile come dicono, o se fosse un pensiero messo in giro da chi si adopera affinché sia una cosa realmente insopportabile.
Pensò che una società che sostiene che l’esistenza sia una cosa insopportabile, è una società che tenderà sempre ad assolversi. Le persone che non possono comprare l’approvazione, hanno bisogno di un assoluzione, pensò. Abbiamo escogitato mille modi per giustificare i nostri comportamenti. Pensò alle religioni. Ad un Dio fatto a nostra immagine e somiglianza. Un Dio a cui basta il nostro pentimento in punto di morte per accoglierci fra le sue braccia. O che ricompensa chi si fa esplodere in mezzo alla gente con vergini e banchetti. Una bella comodità, oltre che un eccellente mezzo per controllare le masse. Tutti assolti. Pensò a come si sarebbe evoluta l’umanità se avesse scelto di continuare a seguire i culti pagani. Se anziché venerare un invisibile e contraddittoria entità, avessimo continuato a rendere grazie al sole, al mare, agli alberi e la terra che ci dà sostentamento.
Pensiero inutile, lo scartò. Inutile piangere sul latte versato. Ma era davvero inutile piangere sul latte versato? Magari quel latte aveva degli amici, degli affetti… Rise di nuovo, stavolta di se. Il pensiero non lo abbandonava. Non sarebbe realmente stato meglio soffermarsi a pensare al perché il latte fosse stato versato? Capire i nostri errori per non ripeterli, invece di ignorarli andando avanti come se nulla fosse successo?
C’è latte ovunque, cazzo!
La gente continua a versare latte senza versare lacrime, senza capire come fare a non versarlo, o a versarne di meno.
Senza rendersi conto delle conseguenze, o peggio, scegliendo di ignorarle. Facendo finta che ci sia latte a sufficienza, che ci sia latte per tutti, che il latte non finirà mai. Pensò che stesse semplificando, che stesse sentenziando. Si disprezzò.
Cosa ne sapeva in fondo di come va il mondo?
Pensò che forse la gente è costretta a fare scelte difficili, e che bisogna mettersi nei panni degli altri, e forse che… Un momento. Stava elargendo assoluzioni.
Saranno le mie radici cattoliche, pensò. No. Io non vi assolvo. Io non mi assolvo. Non mi assolvo per le scorciatoie prese.
Non mi assolvo per i giudizi affrettati. Non mi assolvo per non aver saputo le cose. Non mi assolvo per gli errori in buona fede. Non mi assolvo per le bugie in cui ho creduto, e che ho contribuito a diffondere. Non mi assolvo per aver avuto paura di rischiare. Non mi assolvo per le battaglie che mi appartenevano e che ho disertato.
Ancor di più non mi assolvo per aver disertato le battaglie che non mi appartenevano. Non mi assolvo perché ciò che è giusto fare, va fatto, e troppe volte ho preferito fare ciò che mi conveniva. Ti chiedo di non perdonarmi, oh Signore, per tutto il male derivato dal mio non fare niente. Per tutto il male derivato dal mio non sapere le cose. Per tutto il male derivato dall’ignoranza, io ti prego mio Signore, non perdonarci… nParlò ad un Dio, nel quale non credeva, come non aveva mai fatto. Con le guance rigate da un pianto amaro e salato. Si rivolse a quel Dio chiedendo che lasciasse scendere su di noi, non il perdono, ma la consapevolezza. Teo pensò agli sforzi che facciamo per riempire il silenzio. L’assordante silenzio che ti costringe ad ascoltarti, che ti mette davanti all’ultima persona che vorresti conoscere. Te stesso.
Tonnellate di informazioni ci condizionano sostituendosi alla cultura, scaricandoci dalla fatica di pensare, di guardarci dentro. Influenzando i nostri giudizi, ci convincono di differenze insormontabili, ci mettono gli uni contro gli altri, ci fanno stare lì, con il dito puntato ad additarci l’un l’altro, facendoci l’immenso regalo di impedirci di puntarlo verso noi stessi. Impedendoci di pensare. Liberandoci dal frastuono.
Teo stava imparando a lasciare che il frastuono facesse il suo lavoro. Di solito la cosa si concludeva così, con grosse lacrime che gli rotolavano in bocca.
Altre volte prendeva a pugni il muro con vene nitide come strade di campagna sul collo e sulle tempie. Altre volte si ritrovava a ridere nel buio.
Le volte in cui era fortunato, si addormentava, con la speranza che il pensiero che aveva seguito lo conducesse a sognare il mare. Aveva sentito dire che erano tornati i delfini.