Autore vero, indipendente al limite del fanatismo, amante appassionato del cinema. Ma Michael Cimino passerà alla storia per due numeri da musical, il genere forse più popolare. I love you baby cantata ne Il cacciatore, in una delle scene più potenti e struggenti, da buona parte del cast, così come la scena di massa epica ed epocale del ballo (anzi di più balli, anche solitari) ne I cancelli del cielo. Racchiudono quei film e quelle sequenze l’anima profonda dell’autore più coraggioso del cinema americano, alfiere e forse ultimo esponente, se non il migliore, di quella New Hollywood che rivoluzionò la Settima Arte, fin dalla filiera produttiva, in America come altrove, prima di essere “sabotata” da dentro. A partire proprio da I cancelli del cielo, una delle opere più ambiziose e belle della storia del cinema, oggetto di un killeraggio mediatico – e critico, va riconosciuto - che amputò la carriera di chi sarebbe stato, altrimenti, e per decenni, il padrone del nostro immaginario. Troppo scomodo Cimino, con la sua autonomia di pensiero e la capacità di scarnificare il senso profondo dell’essere americani, fino a evidenziarne le contraddizioni più dolorose, per accettare che avesse vita lunga dietro la macchina da presa. Troppo pericoloso nell’arrivare a livelli estetici altissimi senza mai abbandonare il pubblico, né voltargli le spalle. Imbrogliò anche gli Oscar con Il cacciatore: non solo perché fu la sua operazione commerciale migliore (budget di 15 milioni di dollari, 50 incassati solo negli Stati Uniti), ma perché aveva una coerenza e una quadratura narrativa a prova di Hollywood. Non si accorsero di quanto fosse pericoloso quel piccolo grande uomo, capace di guardare nel lato oscuro del sogno americano e dei suoi ideali traditi, non capirono che solo lui poteva mettere De Niro a interpretarlo e Meryl Streep, esordiente, a tenere sulle spalle la pista narrativa più dolente, sensibile, lacerante, fino a quel finale in cui mette in scena un requiem che vale per un uomo, per una guerra, per un paese. E forse anche un po’ per John Cazale, che sfidò un cancro ai polmoni per morire in ritardo e chiudere il suo personaggio.Forse molti di voi si sono abituati a Michael Cimino grande maestro in pensione forzata, all’uomo in lotta con la sua immagine e forse con la sua identità che si espone a trasformazioni come quelle di Michael Jackson. Faceva comodo a molti esporlo in quella maniera, sfruttarne le debolezze, tenerlo ai margini di un cinema incapace di poesia e complessità, perché le major dopo aver ammazzato quella generazione pazzesca di cineasti ha inaridito le successive.Cimino è il simbolo dell’indipendenza autoriale a ogni costo: basta averlo conosciuto, intervistato oppure solo affiancato in una proiezione (mi successe al Festival di Locarno, fu straordinario per l’attenzione parossistica con cui studiava la sua opera a quasi 40 anni di distanza), per comprenderne il rigore totale e allo stesso tempo naturale. Era costretto costantemente allo “one shot”. Non ha mai accettato alcun compromesso: così Il cacciatore lo fa con l’ambizione intatta con cui era nato, senza accettare alcun cambiamento, passando anni a trovare una strada per produrlo, girarlo, offrirlo al pubblico. Con un investimento notevole per allora (15 milioni, si pensi che Rocky ne raccoglie, in una condizione simile, solo 1,1), sa che nessuno gli darà un’altra opportunità. Arriva il successo di pubblico clamoroso, arrivano le nove nomination e i 5 oscar (tra cui il miglior film e la miglior regia). Come Coppola non le usa per diventare il re, ma per continuare a fare il suo cinema. E quindi si condanna a ripetere quel modello. Che, con I cancelli del cielo, dà luogo al fallimento più maestoso e brillante che il grande schermo avesse visto. One shot, una sola pallottola, come quel cacciatore incarnato da Bob, perché lo metteva alla pari con le sue prede. E Michael ha sempre preso il cinema di petto, senza scorciatoie, alla pari con i suoi cacciatori. E’ stato forse l’ultimo a pensare in grande, a immaginare che il cinema potesse e dovesse tutto, a mettere in campo energie, fantasie e sentimenti che sembravano ormai soffocati da una modernità normalizzata.Lo condannarono quei 325 minuti (diventati “solo” 220, dopo i tagli) de I cancelli del cielo, in cui mai macchina da presa fu più coinvolta, sconvolgente, partecipe, presente. Fu massacrato e di Cimino, che con la sua unica pallottola si trovò di fronte alle mitragliatrici del Potere e della manipolazione. La leggenda metropolitana che lo vuole causa del fallimento di due aziende con quell’opera ne è l’esempio più clamoroso: la United Artists pur colpita dai 44 milioni di budget a fronte di 4 di incasso, era già sulla buona strada per crollare. Dopo, il nulla o quasi. Pallidi raggi di talento, sempre più radi: ne L’anno del dragone c’è l’eco della sua grandezza, ne Il siciliano qualcosa di simile alla parodia, fino a Verso il sole, che ne sancisce il tramonto. Ma a lui sono bastate poco meno di 9 ore e 2 film per cambiare noi e il cinema. Poi, come Icaro, per non rinunciare al massimo, si è bruciato le ali. Precipitando, alla grande.