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di Simona Musco e Rocco Vazzana In giro ci sono solo gatti randagi. Riace è un borgo deserto, neanche lontanamente scalfito da questo lunedì elettorale. Al seggio è andato solo un cittadino su tre per decidere il futuro Presidente di Regione. Non c’è traccia nemmeno di quella selva di telecamere che alle precedenti elezioni aveva occupato i marciapiedi e le piazze del centro. I negozi chiusi fanno da sfondo a un modello d’accoglienza ormai sepolto sotto il peso di sentenze abnormi e alla volontà politica di cancellare ogni traccia del passaggio di Mimmo Lucano. Il sindaco che ha messo al centro del mondo un minuscolo paesino della provincia di Reggio Calabria deve essere rimosso dall’immaginario di una comunità insieme al suo villaggio globale, ai suoi laboratori per migranti ormai abbandonati, alla sua idea di giustizia sociale. Sonnecchia Riace, mentre nelle urne si decide il destino di un’intera Regione. Ai riacesi non resta che affidarsi ai santi Cosma e Damiano che campeggiano sui cartelli all’ingresso del borgo da quando il nuovo sindaco, il “simpatizzante” leghista Antonio Trifoli, ha deciso di cancellare il vecchio messaggio di benvenuto a «Riace, paese dell’accoglienza». Ed è in questo clima di rimozione radicale che, passeggiando per le stradine senza più migranti, incontriamo quasi per caso Lucano. È solo, seduto al chiosco di un bar chiuso, con lo sguardo perso, rivolto a un posacenere colmo di mozziconi. Poco prima l’ex sindaco ha schivato tre ragazzi, l’unica forma di vita incontrata in città, per sbaglio: pensava fossero di una troupe televisiva. Invece avevano fatto parecchia strada solo per salutarlo (erano arrivati da Roma e Bologna) e consegnargli un dono: una fotografia incorniciata dell’abbraccio tra Lucano e Aboubakar Soumahoro, il sindacalista dei braccianti fantasma. «Vi chiedo scusa», dice sinceramente dispiaciuto l’ex sindaco, quando si rende conto del malinteso. E nonostante l’umore sotto i tacchi ci fa accomodare accanto a lui e inizia un lungo dialogo che si trasforma nello sfogo di un uomo incapace di comprendere quanto accaduto. «Il potere ha voluto abbattermi», «sono stato un infiltrato all’interno dello Stato borghese», «chi mi ha condannato non sa nulla di Riace e di quello che avevamo realizzato, nessuno si è mai scomodato di venire qui e capire». L’ex sindaco ripercorre la vicenda processuale, mette in luce le incongruenze, punta l’indice contro le ipocrisie e il pilatismo del potere politico che ha prima sfruttato mediaticamente e poi distrutto la sua fama povera di malizia. Non solo la Procura (che non paga della pena «si è messa a rilasciare dichiarazioni dopo la condanna, una cosa inaudita») e il Tribunale. Anche il ministero dell’Interno, all’epoca di Marco Minniti, e la Prefettura. Lucano non parla: erutta. E ogni tanto si ferma per cambiare discorso, per raccontare della preoccupazione dei suoi figli o per leggere un messaggio di solidarietà. Come quello di Adriano Sofri, che esprime vicinanza sincera e commovente all’ex sindaco degli ultimi, con l’ottimismo della ragione di chi è convinto che in Appello il verdetto verrà ribaltato. Dello scrutinio in corso Lucano non sa nulla. Anzi, si disinteressa proprio. «Tanto anche se vengo eletto decado a causa della legge Severino», dice «l’imprensentabile», secondo la ridicola categorizzazione della commissione parlamentare Antimafia che ha inserito il capolista di “Un'altra Calabria è possibile” (a sostegno di Luigi de Magistris) nell’elenco dell’infamia. Leggiamo insieme le prime proiezioni ma lo sguardo torna assente. Le elezioni sono l’ultimo dei suoi pensieri. Pensa alla sua vita distrutta Lucano e si lancia in osservazioni cupe sul futuro figlie dell’inquietudine. «Oppure», aggiunge quando si riprende con un sorriso amaro, «posso dedicarmi alla campagna, ho due pecore, posso ripartire da lì». E mentre già si immagina contadino, cambia di nuovo espressione e tono di voce. Urla quasi. La sua innocenza e la sua voglia di riscatto. Ripercorre i momenti in cui Riace era l’ombelico del mondo: la copertina del Fortune, il documentario di Wim Wenders, le canzoni di Vinicio Capossela, la lettera al «caro fratello sindaco» scritta dal Papa. Ed è proprio a Francesco che si ispira il “curdo”. «Che fanno? Processano pure lui adesso?», si chiede. Perché proprio con la comunità cattolica Lucano ha stretto un legame fortissimo negli anni. Padre Alex Zanotelli e i comboniani restano un punto di riferimento per l’uomo dei migranti, che tra una settimana sarà “ospite d’onore” alla marci per la pace Perugia-Assisi. «E da quel palco avrò modo di parlare, di dire la mia», dice, col tono di chi, nella solitudine, sa di avere ancora molti estimatori. «Sì, ma che me ne faccio? Mia figlia è preoccupatissima. E se ho deciso di non fare sciocchezze è solo perché sono padre». Lo scrutinio intanto prosegue al seggio numero 1, quello d’appartenenza dell’ex sindaco. Mentre scriviamo ancora non ci sono dati definitivi, né parziali su Riace, solo qualche proiezione che dà la lista di Lucano al 2,1 per cento. Ma di tutto questo all’ex sindaco non importa nulla, non ha mandato in giro nemmeno rappresentanti di lista per avere ragguagli. Lucano vorrebbe solo sparire o tornare a occuparsi degli ultimi. Perché nonostante le sentenze «rifarei ogni cosa».