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A lungo attesa, l’intervista telefonica a Maurizio de Giovanni risente delle sonorità jazz di sottofondo al caffè dove sono seduto. Sul tavolo un blocco a spirale, nel testardo, anacronistico tentativo di lanciare il racconto che mi appresto ad ascoltare oltre la barriera ingenerosa del presente. Pochi squilli. I saluti. L’inizio. Il lei è d’obbligo e prova a nascondere una lunga amicizia nata al Caffè Gambrinus nel 2005, dove tutto ebbe inizio. È il ventesimo anno da narratore per il drammaturgo napoletano. Gli chiediamo quale sia la prima immagine che gli viene in mente, guardando in prospettiva la lunga strada percorsa. «Io non posso non pensare al Teatro Acacia, alcune settimane fa. Vederlo gremito, in ogni ordine di posti per Volver, con centinaia di persone ad applaudire e amare chi non esiste, se non nel cuore di tanti, mi è sembrato il punto di arrivo di un tempo lungo, anche se meno di quanto si possa immaginare, e un momento di orgoglio paterno per i miei personaggi, non solo personale. Un attimo meraviglioso».
Le parole di de Giovanni fluiscono con vividezza pittorica, alternando chiarori e oscurità inediti, oltrepassando il confine angusto della tavolozza. Ogni frase tratteggia con precisione una scena o uno stato d’animo, come in una grande pala d’altare. I brevi silenzi alternati alle domande permettono alle risposte di decantare.
Narrando anime infrante da crimini così efferati, come riesce a far prevalere il senso di giustizia?
Il crimine è questo: non è enigmistica, non è un detective coi baffetti ben curati a caccia di indizi e persone da interrogare. Il crimine è uno squarcio, un’alterazione sociale. Che non ha soluzione, neppure dopo aver fatto giustizia. Perché con il carcere si hanno due vittime. Il crimine mette sotto esame la giustizia. Ma seguire la legge può anche voler dire infibulare una bimba, lapidare un’adultera, o obbligare le donne a tenere il capo coperto, senza che possano scegliere di ribellarsi… E se pensiamo che anche qui da noi fino agli anni Ottanta si poteva uccidere per onore, possiamo comprendere che talvolta la distanza tra legge e giustizia è abissale.
Una riflessione di valore, da chi come lei per anni ha vissuto da molto vicino difficoltà e successi della professione forense…
La mia è una famiglia di avvocati: mio nonno, mio padre, mia sorella, che ha scelto di essere matrimonialista, e testimoniare le difficoltà dei deboli, un mondo che è fonte di ispirazione per chi scrive. È una materia di grande interesse perché costituisce l’indicatore di quanto realmente succede oggi nelle nostre case, un ruolo fortemente inserito nell’attualità sociale.
Volver è il romanzo che segna forse l’ultima volta del Commissario Ricciardi. Esiste la possibilità di rivederlo negli anni di guerra?
I personaggi di un romanzo si sviluppano secondo loro personali traiettorie, non sono io a determinarne il destino. Non avrei voluto perdere per strada Rosa o Enrica. È pur vero che in un decennio accadono molte cose nella vita dei personaggi. Di sicuro so che non voglio raccontare Guerra o Dopoguerra. Non è proprio l’epoca in cui voglio vedere i miei personaggi. Non posso escludere di tornare un giorno a raccontarli, ma mai prima degli anni Cinquanta, e non prima dei prossimi due anni. L’immediato Dopoguerra è vivere nella disperazione, una giornata dopo l’altra. Invece il Paese negli anni Cinquanta rialza la testa, è tutto diverso. E allora si può tornare a raccontare.
Le inquietudini di Ricciardi sono tutte nello sguardo. Che ricorda il suo. Cosa dicono quegli occhi?
Ricciardi prova il dolore degli altri, lo condivide. Ci pensi: a Gaza migliaia di bambini muoiono senza colpa sotto le bombe in una crudeltà senza senso, e così dovunque ci sia una guerra, in Libano, in Ucraina… Anche quella bimba di dieci anni, sopravvissuta all’ennesimo naufragio nel Mediterraneo, sola in mare per giorni… è sempre un dolore che interroga. Eppure noi continuiamo a distinguere, e a rimuovere le morti in mare o sul lavoro come fossero morti di serie C. Si discute con più enfasi delle nuove multe per chi guida senza cintura. Ecco, Ricciardi invece è portatore dello sguardo degli altri. Volevo che il mio personaggio non si voltasse dall’altra parte come facciamo noi, e che fosse testimone del dolore altrui, perché costretto a vivere avendolo davanti agli occhi.
La drammaturgia moderna richiede di saper saldare insieme più storie. Anche questo è il fascino del ciclo dei Bastardi di Pizzofalcone. Ha un segreto?
Lo faccio non pensandoci, lasciando andare avanti la storia, guardando a tutti i personaggi con affetto. Se le loro vicende funzionano, sono felicissimo, se non ci riesco, pazienza. Non ho strategie: mi limito a guardare in tutte le finestre del condominio che ho in testa con pari coinvolgimento. Insomma, non voglio bene più a Pisanelli che a Lojacono.
Mina Settembre rispecchia le contraddizioni di Napoli e del suo popolo...
Mina si sente sempre fuori luogo. La sua sensibilità sociale e l’idiosincrasia a ogni oppressione la spingono a sentirsi fuori posto nell’alta borghesia napoletana che sembra ballare sul Titanic ma anche in contesti del tutto opposti. Amministra la sua autonomia, ma dipende comunque dagli altri. Si sente costantemente sbagliata eppure resta testardamente se stessa, anche riguardo al suo corpo. Io l’ho immaginata bellissima, che cerca di nascondersi per non sembrarlo, per non distrarre gli altri da quanto deve dire.
Nei romanzi di Sara emergono i silenzi. Cosa racconta il buio a Sara?
Per me Sara è il personaggio più affascinante. Mi piacerebbe andare a cena con lei. Ha il superpotere dell’ascolto. Oggi che i social incrementano il protagonismo nello sforzo di affermare se stessi, e ognuno trasforma un’opinione in verità assoluta, spicca chi resta in disparte, non rivela ma ascolta, prendendo dagli altri con il potere raro dell’ascolto. Per questo andava collocata in un particolare mondo, quello dei Servizi, che può essere raccontato solo in un silenzio denso di suoni.
Ci dice un rimpianto o un rimorso letterario?
Ho molte più storie di quelle che riesco a raccontare. Il rimpianto è lasciarle indietro. Un romanzo è un viaggio da A a Z, punteggiato di personaggi e ambienti che andrebbero approfonditi, seguiti. Non poterlo fare sempre è il mio rimpianto.
Giorni da cancellare, rivivere, attendere.
Nessuno da cancellare, neanche i più duri. Sono cicatrici belle da accarezzare. Vorrei rivivere tutti i giorni con mio padre e mia madre, ma con diverse consapevolezze, senza una continua ansia per il futuro. Spero di avere ancora giorni da attendere, con altre storie, che mi piacerebbe uscissero belle così come le ho in testa. La scrittura è come un imbuto: quello che resta è solo una parte di quanto c’era all’inizio.
La sua opera abbraccia più mondi. Ha in progetto nuove drammaturgie teatrali o sceneggiature?
Devo scrivere per il teatro, sì. Lo faccio in vacanza, quando posso staccarmi dai romanzi. Ci sarà Così si dice, il seguito di Mettici la mano con Maione e Bambinella. Poi c’è Povero papà per Tosca d’Aquino e Gea Martire, e un monologo su Billie Holiday per Mariangela d’Abbraccio. Con Mondadori uscirà L’antico amore, il mio primo romanzo esclusivamente sentimentale. In maggio sarà il turno di Sara. E a fine 2025, ci sarà una sorpresa per tutti i lettori.
E la Trilogia dei Guardiani?
Ho già in mente qualcosa, un progetto interessante, una graphic novel per Bonelli, ma al momento non ho spazi. E nella necessità dei lettori per ora vince Sara.
Lei si batte contro la violenza di genere. Quale futuro immagina per le donne? Il femminicidio nasce da un patriarcato duro a morire o è un crimine che nasce da una reale incapacità di accettare ruolo e libertà sociale delle donne?
È un problema culturale fortissimo, forse più vasto del patriarcato. C’entrano il senso del possesso e una malintesa identità maschile. Al diminuire della produttività sociale aumenta la violenza di genere, per la perversione culturale del sentirsi proprietari di qualcuno. Da qui credo nasca la violenza. Bisogna allargarne il perimetro, e insieme a lesioni fisiche e ferite psicologiche includere la diversità di salario a parità di mansioni, il demansionamento, le mancate assunzioni o i licenziamenti per quante hanno un figlio in attesa. Ma la violenza talvolta è meno visibile, se ragazzine di 14 anni accettano che un fidanzatino vieti le uscite con le amiche o decida come devono essere vestite. La violenza odierna è spesso molto vicina a noi, non solo nelle periferie degradate, ed è legata all’assenza della cultura e dello Stato. Crimine e degrado sono cose diverse e vanno combattute in modo diverso. Assimilarli ci fa perdere questa guerra. Perché cinquecento poliziotti che alle cinque di mattina presidiano un posto possono anche trovare droga e pallottole, ma poi vanno via e le cose tornano com’erano. Servono invece interventi sociali stabili: edilizia sociale e scolastica con scuole a tempo pieno, lavoro, dignità, decoro. Ecco, se facciamo questo possiamo puntare alla soluzione del problema. Mettere in carcere tutti non fa ottenere niente.
Lei crede che la giustizia possa essere ancora un viaggio verso la verità, lontano dal processo mediatico dove vicende private entrano nel dibattito pubblico? Cosa non funziona della giustizia?
Non sopporto la diversa rilevanza mediatica che esiste tra rinvio a giudizio e proscioglimento, trovo sia una terribile violenza morale. Non va che per l’opinione pubblica un avviso di garanzia costituisca colpevolezza, perché possono passare 15 anni tra avviso e sentenza in Cassazione. La custodia cautelare diviene un’arma inaccettabile, lesiva di ogni dignità. Le condizioni delle carceri italiane ed europee troppo spesso mancano alla loro funzione rieducativa e diventano università del crimine, dove un ragazzo, se esce dopo dieci anni di carcere, si trasforma in bomba sociale. Perché in quei dieci anni ha avuto contatti strettissimi con realtà criminali di alto livello. Quel ragazzo, una volta fuori, cosa farà? Dove e come trarrà risorse? Nessuno ci pensa mai, ma se non si rieduca, se non si propongono modelli, se si continua con i decreti sicurezza, ignorando le centinaia di suicidi tra detenuti e guardie carcerarie…
Scende il silenzio, come in una pagina di Sara. Un silenzio che racconta tutto.