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Mario Monicelli osservò che «la sua silhouette così discreta, senza parole inutili, così autoironica, ha portato nel mondo intero un'idea della nostra civiltà, della nostra cultura, che ben pochi altri hanno saputo offrire con la stessa eleganza».
La mostra Mastroianni – fino al 17 febbraio 2019 al Museo dell'Ara Pacis di Roma – offre un ritratto intimo e personale del grande attore che, pur occupando un posto d'onore nell'immaginario collettivo di più generazioni e rappresentando indiscutibilmente un divo dalla statura internazionale, ha saputo coltivare senza remore “uno stile nell'ombra, senza eccessi, senza abusi, preferendo le riflessioni interiori”, con quell'umiltà caratteriale che gli permise di imparare – e successivamente rielaborare – la lezione di grandi interpreti quali Totò, Tyrone Power, Aldo Fabrizi, Vittorio De Sica, Jean Gabin, Amedeo Nazzari e, in particolar modo, Fred Astaire, del quale ammirava la capacità di recitare con tutto il corpo, specificamente consona al mezzo teatrale.
«Non si recita con tutto il corpo, – evidenziava Mastroianni – al cinema; a teatro sì. A me dispiace, perché il corpo ha una sua funzione precisa, esprime un atteggiamento del personaggio, esprime anche uno stato d'animo».
Non a caso, proprio nel teatro Mastroianni mosse i suoi primi passi, scoperto giovanissimo da Luchino Visconti – «Luchino mi ha insegnato buona parte di quello che so... Mi sento privilegiato, perché sono entrato dalla porta d'oro del teatro» – ma, proprio quando sembrava che il teatro potesse plasmarne il destino – e infatti non se ne separerà mai, fino all'esito estremo costituito dallo spettacolo Le ultime lune, che debuttò al Teatro Goldoni di Venezia il 10 novembre 1996, circa un anno prima della scomparsa – la chiamata di Federico Fellini sparigliò le carte. «Vissi un dubbio atroce, – ammise l'attore – però alla fine optai per il cinema».
Assecondò così fino in fondo la smania di recitare che non lo abbandonava fin da quando era un ragazzo.
Confidò infatti in diverse interviste: «Da che mi ricordo, ho sempre voluto essere un attore», per poi stemperare: «Magari per vanità, per civetteria, per caso o forse per necessità».
Attraverso foto, cimeli, filmati e testimonianze – attingendo anche agli stralci di interviste rilasciate per il documentario di Anna Maria Tatò Mi ricordo, sì, io mi ricordo ( 1997), ora divenuto un libro curato da Francesco Tatò –, l'esposizione ripercorre i tratti salienti del suo lungo percorso artistico, dalle prime comparsate al primo ruolo importante – quello del vigile in Domenica d'agosto di Luciano Emmer ( 1950) –, dai successi firmati da registi di spicco – fra i quali Mario Monicelli, Dino Risi, Mario Camerini, Luigi Comencini, Carlo Lizzani e Alessandro Blasetti – alla lunga e proficua collaborazione con Federico Fellini – iniziata con La dolce vita ( 1960), per la quale il regista lo preferì a Paul Newman, inizialmente scelto dal produttore De Laurentiis, in quanto desiderava per il ruolo «una faccia qualsias» –, senza trascurare il sodalizio duraturo con Sophia Loren.
«Noi – ebbe a dire al riguardo – abbiamo fatto insieme dodici film, l'arco di una vita. L'hanno scritto anche i giornali americani, e del resto è vero: Sophia e io siamo ancora l'ultima coppia del cinema internazionale» – e le pellicole sperimentali post-' 68, sei delle quali per la regia di Marco Ferreri.
Una carriera sconfinata che conta più di cento film, molto teatro e numerosi riconoscimenti internazionali, contrassegnata da un'evidente versatilità che gli faceva alternare le vesti di attore drammatico – in cui si calava per Zurlini, Antonioni, Pietrangeli, Visconti, Petri, De Sica – a quelle di attore di commedia – per Monicelli, De Filippo, Scola, Magni, ancora Pietrangeli. Amava dire: «Personalmente – forse anche perché ho cominciato col teatro, dove è rarissimo che un personaggio si ripeta – io non ho mai sopportato di essere relegato sempre nello stesso ruolo. Secondo me l'attore, buono o cattivo che sia, ha bisogno di cambiare pelle continuamente; è questo che lo esalta: l'illusione di essere ogni volta diverso». Parole che riflettono la quintessenza della condizione attoriale.