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Per Martin Lutero la religione era espiazione e penitenza, colpa e mortificazione ( dello spirito e della carne, specie quella altrui), ma anche una rude lotta contro il peccato e i peccatori. Le invettive all’arma bianca, la prosa senza compromessi, la rabbia fustigatrice verso i “nemici di Dio” non lo abbandoneranno mai nel corso della vita. In qualche modo il padre della Riforma è un precursore di quel linguaggio dell’odio che costituisce la fortuna dei moderni leader populisti. Basta leggere poche pagine del pamphlet antisemita Degli ebrei e delle loro bugie scritto nel 1543 tre anni prima della morte per toccare con mano l’intensità della violenza luterana, ma anche la sua inquietante modernità. Un fervore che si spinge ben oltre la tradizionale giudeofobia cattolica: «Di questi miserabili ladri e parassiti bisognerebbe confiscare i beni, bruciare le sinagoghe e le abitazioni, devono essere cacciati dalla Germania o altrimenti uccisi. Gli ebrei sono serpi velenose, dei maiali figli del demonio ricoperti dagli escrementi di Satana». Non è un caso che Degli ebrei e delle loro bugie sia stato uno dei libri più letti e citati dai gerarchi del Terzo Reich per giustificare i pogrom e le persecuzioni della comunità ebraica.
Sotto i riflettori del “tribunale” luterano non solo le alte gerarchie della Chiesa o le religioni «eretiche», ma anche l’umanista suo contemporaneo Erasmo da Rotterdam con cui entra in polemica in una disputa sul libero arbitrio, definito «un topo di fogna», o l’astronomo polacco Copernico padre dell’eliocentrismo, liquidato come «un furbastro imbecille che ha la pretesa di mettere con i piedi per aria tutta l’arte della astronomia».
Aveva un talento speciale, Martin Lutero, nel trafiggere con gli insulti i suoi avversari, questo fin dalla prima gioventù in un crescendo espasperato, possedeva anche un sarcasmo rozzo con cui fomentava i fedeli, in particolare contro la curia romana che nelle sue intemerate amava paragonare al «letame» o a un «verminaio» tra gli sghignazzi dei suoi partigiani. Ma mai avrebbe immaginato che quell’irrequieto spirito iconoclasta e quel livore malcelato lo avrebbero fatto diventare una delle figure più influenti della Storia.
Nella notte di Ognissanti di cinquecento anni fa, un oscuro frate agostiniano affigge le sue “95 Tesi” sulla porta della cattedrale di Wittemberg, piccolo villaggio nel nord della Germania. Si tratta di di un attacco senza precedenti alla Chiesa apostolica romana, al suo decadimento morale, agli sperperi, al bieco commercio delle indulgenze ( pagare il Vaticano per assicurarsi un posto in paradiso). Povere dal punto di vista teologico, le tesi luterane sono una bomba atomica che in pochi anni darà vita a una nuova confessione religiosa e scoperchierà l’intera geopolitica dell’Europa. A dire il vero Lutero voleva soltanto aprire una discussione tra le autorità religiose, ma come è accaduto a molti prima e dopo di lui, per una serie di circostanze non volute si ritrova ostaggio della Storia. La traduzione in tedesco del suo testo e la recente invenzione della stampa fanno rimbalzare le Tesi ai quattro angoli della Germania. È un effetto domino. Quando Papa Leone X intima al frate di abiurare 41 delle 95 tesi nella bolla pontificia Exsurge Domine, Lutero brucia pubblicamente la bolla; da quel momento lascerà per sempre la Chiesa cattolica.
Il viaggio a Roma di sei anni prima fu decisivo per la maturazione della sua rivolta interiore: Lutero è sconvolto dall’opulenza del clero, dagli abusi ecclestiastici, dalla mollezza spirituale, dalla sbadataggine con cui la capitale del cristianesimo vive la fede, sempre mediata dalla politica e dalle contraddittorie opportunità della vita mondana. Non sopporta il modo sbrigativo con cui viene ce- lebrata la messa e, quando tocca a lui officiare una cerimonia, si sforza di parlare lentamente in aperta polemica con quei prelati distratti e corrotti.
Ma è anche irritato dalla sfavillante bellezza romana, da una città cosmopolita che splende nella luce del Rinascimento così diversa dal natio borgo selvaggio di Elseben e dai suoi umori sommessi e umidi: Michelangelo, Raffaello, Bramante, i grandi geni dell’arte chiamati nella città eterna dal Papa mecenate Giulio II. Per il frate tedesco questo sfarzo è il simbolo della perdizione vaticana, la rappresentazione plastica della decadenza temporale.
In questo contrasto ancor più antropologico che spirituale, traspare tutta l’irriducibile diversità di Martin Lutero, la sua “provinciale” e complessata avversione nei confronti di un’autorità che vede irrimediabil-mente “lontana dal popolo”, espressione malvagia di un potere che ai suoi occhi non ha più alcuna autorità morale e le cui espressioni culturali sono altrettanti simboli di quel declino religioso e umano che ha fustigato nel corso della sua esistenza.
«Ogni credente è un sacerdote», afferma invitando i fedeli a liberarsi della mediazione dei ministri di culto per riscoprire il rapporto diretto con Dio. Insomma, anche di fronte al padreterno “uno vale uno”.