La battuta viene subito, facile e diretta: il cinema è davvero la fabbrica dei sogni se è vero che nella Settima Arte, nel festival più importante e ricco del mondo, può vincere un comunista. Senza problemi, premiato da una giuria di sicuro non vicina alle sue idee politiche e con un presidente come George Miller che al massimo, a giudicare dai suoi film, possiamo definire un anarchico post-moderno. Perché l’arte ha questo di bello: non riesce e non vuole farsi schiacciare dai pregiudizi e dalle ideologie, ma privilegia le emozioni. E bastava vedere i social dei critici solitamente più esigenti e freddi per capire che Ken il rosso, 80 anni e non sentirli e da almeno una dozzina di primavere rinato, li aveva fatti piangere copiosamente.Ken Loach e il suo I, Daniel Blake, con un uomo malato e una giovane madre sola che si trovano a combattere contro le contraddizioni di un capitalismo cinico e baro che a loro offre la sua faccia più ottusa e kafkiana, quella burocrazia assistenziale che sa solo umiliarti, obbligandoti a cercare lavoro, ad esempio, nel momento in cui dimostri di non poterlo fare.Perché prima che lo Stato accerti questa tua inabilità, tu devi cercare un’occupazione. Grottesco, se non fosse vero e tragico.Perché i burosauri e i loro uffici che sono pieni di vigliacchi Caronte sono i migliori guardiani del più squallido dei status quo.Loach, libero dai legacci dell’ideologia a cui l’aveva “costretto” la Thatcher e poi, negli anni ’90, l’incapacità di trovare la bussola per orientarsi oltre il secolo breve, ha ritrovato nella vecchiaia la lucidità, l’ironia, la dolcezza e sì, anche quella ruvida passione della prima metà della sua carriera. E non ha paura di andare a fondo dei legami che la necessità può creare – l’amicizia dei due protagonisti nasce dalla solidarietà degli sconfitti – e che la ricerca di giustizia, nonostante tutto e tutti, alimenta. Anche nella durezza estrema delle vite degli umili.“Un mondo diverso non è solo possibile, è necessario. Come fare cinema contro i potenti”. Con lo sguardo incredulo per la seconda Palma d’Oro della carriera – la prima, incredibilmente, arrivò solo nel 2006 e per Il vento accarezza l’erba, una delle sue opere meno riuscite – ma deciso e fermo nello schiaffeggiare verbalmente la platea opulenta del Gran Teatro Lumiere, ha ripetuto ciò in cui crede da sempre: una rivoluzione che parta dal basso e sì, anche dalla cultura. Ciò che più affascina è forse che Loach abbia lasciato l’ideologia al fido Laverty per offrire al suo cinema il suo sguardo più emotivo e disorientato su un mondo in cui tutte le regole, i pudori, le reti di sicurezza sono saltate. Inesorabilmente, lasciando i più deboli totalmente indifesi. E non di rado costretti a lottare fra loro.Ancora più interessante è lo sguardo d’assieme: sebbene Miller rifiuti l’etichetta politica sul palmares, è inevitabile non ravvisarla. Almeno nella sensibilità con cui si sono scelte alcune storie rispetto ad altre. E se brucia a molti che Ade e Arnold, le due donne che per molti sono le vincitrici morali con i loro film rimasti di fatto all’asciutto (la seconda ha portato a casa il terzo premio, ma non è abbastanza), molto apprezzati dalla critica, colpiscono per esempio i due riconoscimenti ai migliori attori. Shabab Hosseini è il centro di un dramma metateatrale che tra palco e realtà, come già avvenuto in altri lavori di Farhadi, si trova al centro di un buco nero silenzioso che rischia di risucchiarlo e che, pur apparentemente lontano, riguarda profondamente le ferite della sua società. E cos’è la migliore interprete, Jaclyn Jose, madre costretta al traffico di droga per sopravvivere e che si trova a fronteggiare gli abusi della polizia filippina corrotta, se non una sorella, una madre dei due protagonisti di Loach, pur essendo tra le mani di un autore adorato da Cannes, Brilliante Mendoza? E se Dolan e Assayas premiati per due lungometraggi minori della loro produzione rientrano tra le scelte più cinefile e forse vezzose della giuria, la Arnold che si porta a casa il premio della giuria e ancor più Mungiu, che qui vinse a sorpresa la Palma con un film durissimo sull’aborto, sono un altro segno di una Cannes molto militante. Christian Mungiu infatti con Bacalaureat va al cuore della corruzione, anche lui, di un paese che è stato prima schiacciato dal comunismo, la sua Romania, per poi essere annientato, in particolare nei valori, dal turbocapitalismo che nell’est Europa ha fatto più danni di uno tsunami, provocando una desertificazione morale.Certo, ha aiutato l’assenza del capolavoro o del film che caratterizza un’edizione, anche in negativo (le ultime due deludenti prove di Malick, ma anche in positivo La vita di Adele), e una qualità media alta che ha portato la giuria nella difficile ma motivante condizione di cercare un filo, magari rosso, su cui portare avanti un racconto proprio, fatto appunto di premi ma anche di profondità d’analisi e di emozioni. Miller e Golino, in fondo, con le loro frasi, hanno testimoniato il profondo impegno profuso nel comporre il palmares e il senso di responsabilità con cui hanno affrontato il loro compito. Forse perché il cinema, in questi anni così difficili, può dare qualcosa di più a quel mondo diverso, possibile e soprattutto necessario che vorrebbe Loach. E tutti noi. Alla faccia di quel carrozzone che si riversa sulla Croisette e che cerca di ignorare le ingiustizie sopra le quali passa il suo red carpet. Anche perché in quel rosso c’era molto giallo quest’anno: quello che rappresenta Giulio Regeni e che dallo stesso Ken a Paolo Virzì e Valerio Mastandrea, passando per molti altri protagonisti, è stato portato indossando il braccialetto che già aveva spopolato ai David di Donatello con su scritto “Verità per Giulio Regeni”. Grazie a una giornalista, Michela Greco, giornalista e critica cinematografica che ha sensibilizzato molti colleghi e distribuito molti di quei bracciali, sollecitata dai ragazzi di @giuliosiamonoi. Una rete solidale, molto loachiana, unita dalla sete di verità. E dalla necessità della giustizia. Diversa e possibile e appunto necessaria, per Giulio prima di tutti.