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FILE - Clint Eastwood arrives at the AFI Awards on Jan. 3, 2020, in Los Angeles. An iconic western starring Eastwood has been dubbed in the Navajo language. The movie, “A Fistful of Dollars,” or “Béeso Dah Yiníłjaa’” in Navajo, will be screened this month on or near the reservation that extends into Arizona, New Mexico and Utah. A premiere for the cast and crew is scheduled Nov. 16, 2021, at the Window Rock, Ariz., theater. The Western is the third major film available in the Navajo language. (Photo by Jordan Strauss/Invision/AP, File)
È possibile criticare un maestro? È giusto schierarsi contro il mainstream che celebra un film solo perché opera di un grande regista? In altre parole, criticare un Autore non è forse il solo modo per rispettarne il genio?
In questi giorni, nelle sale cinematografiche, è in programmazione “Giurato n. 2”, ultimo film (in ordine cronologico) di Clint Eastwood. Al netto dei molti elogi, il film del novantaquattrenne regista non è all’altezza dei suoi, tanti capolavori.
Partiamo dalla trama. Un ragazzo - innamoratissimo della giovane moglie, incinta del loro primo, atteso figlio – viene chiamato a fare da giurato nel processo per l’omicidio volontario di una donna. L’imputato è un suo coetaneo, dal passato violento e criminale: il colpevole perfetto.
Senonchè il nostro giurato sa che l’imputato è innocente, perché è stato lui a uccidere la donna in un involontario incidente automobilistico. Scopriamo questa “verità” nel primo quarto d’ora del film e attendiamo invano, per la restante ora e mezza di pellicola, un qualsiasi colpo di scena che ci strappi dalla noia di vedere messa in scena la presunta crisi di coscienza del ragazzo che dapprima cerca di orientare la giuria verso l’assoluzione, salvo poi votare anch’egli per la colpevolezza perché, nato suo figlio, teme di doverlo veder crescere attraverso le sbarre di una prigione federale. Intanto, però, il dubbio si è insinuato nella procuratrice distrettuale: forse l’imputato non è colpevole.
E comincia un’indagine parallela che la porterà a capire che il vero colpevole è proprio il giovane giurato, felice neopapà. A questo punto la donna dovrà fare una scelta morale: mandare all’aria il processo che ha istruito e la condanna che ha ottenuto per affermare la verità o tacere lasciando in galera un innocente? Inutile dire che trionferà il bene, nella migliore tradizione del più scontato cinema americano.
Peccato. Siamo lontani non solo dal tormentato protagonista di “million dollar baby” (che leggeva Yeats e scriveva in gaelico: “Mo cuishle”, mio tesoro alla pugile che allenava con amore paterno), ma persino dai chiaroscuri del più recente “the mule” (profondissima critica della società americana in cui il profitto, indipendentemente da come tu l’ottenga, è l’unico valore da affermare).
Siamo agli antipodi anche dal bellissimo “Anatomia di una caduta”, vincitore di Cannes 2023, in cui Justine Triet ci costringe a riflettere se lo scopo di ogni processo sia davvero la ricerca della verità (quasi sempre irraggiungibile) o piuttosto si esaurisca nella sua funzione sociale (sempre imprescindibile): la tensione verso un’utopia (dare/amministrare Giustizia), nella consapevolezza che il processo è uno strumento umano e, perciò, fallibile che genera comunque ferite non rimarginabili.
Si può dire che quest’ultimo è il film di una regista francese non ancora cinquantenne, vissuta in un’epoca di profonda disillusione. Ma non è così.
Con il registro della grande commedia italiana, nell’ormai lontano 1971 Dino Risi, con la scrittura di Age&Scarpelli, decideva, nella splendida scena finale di “in nome del popolo italiano”, di far buttare a Tognazzi-pubblico ministero la prova decisiva per scagionare Gassman-imprenditore truffaldino, ma innocente, dall’accusa di omicidio, facendo prevalere la sua volontà moralizzatrice sulla verità.
“Giurato n. 2” è la plastica rappresentazione di una visione manichea della Giustizia, propria della cultura conservatrice americana che vuole far credere che l’affermazione della verità sia sempre possibile. Ancor più anacronistica in una società in cui le campagne elettorali, anche quelle per le elezioni dei procuratori, vedono troppo spesso vincere candidati che falsificano artatamente la verità.