PHOTO
E' morto a Milano a 75 anni il filosofo Giulio Giorello: era nato nel capoluogo lombardo il 14 maggio del 1945. Era allievo di Ludovico Geymonat ed è stato il suo successore nella cattedra di Filosofia della Scienza all'Università Statale milanese. Da quanto si è appreso, era stato ricoverato per il coronavirus circa un mese fa al Policlinico da cui era stato dimesso da una decina di giorni. Negli ultimi giorni la sua situazione era peggiorata. Si era sposato tre giorni fa con la sua compagna Roberta Pelachin.
Pubblichiamo l'ultima intervista concessa al Dubbio poche settimane fa
Siamo tutti mascherine. Ne facciamo uso, ce le portiamo appresso, le personalizziamo. Le usiamo come barriera contro il male oscuro e invisibile del Coronavirus. E come protezione verso gli altri. Le indossiamo quando pensiamo di essere in pericolo, le togliamo quando ci rilassiamo. C’è un uso pubblico: quando siamo in mezzo agli altri. E un altro privato: quando siamo in famiglia o in ambiti ristretti. Le mascherine sono diventate parte di noi, sono un pezzo della nostra identità. Ma, appunto, quale identità? Con le mascherine siamo noi, ma lo siamo anche senza. Qual è dunque l’identità vera: quella dove nascondiamo il viso o quella dove trasmettiamo - col pianto, col sorriso, digrignando i denti, schiudendo le labbra - le nostre emozioni, il nostro linguaggio non verbale?
Giulio Giorello, filosofo della scienza, epistemologo, matematico, rimugina qualche secondo. Poi spiega: «Se la questione della mascherina viene presa in modo ossessivo, effettivamente può nascere un problema di identità. La nostra persona una volta era particolarmente caratterizzata dal volto e dalle sue espressioni. E la mascherina invece queste espressioni le cela. Dunque parliamo di una perdita. Se questa perdita viene mantenuta nell’ambito del ragionevole, non è un disastro. Ma se invece diventa una difficoltà, una perturbazione, se il mascheramento diventa una sorta di ossessione allora è chiaro che la mascherina produce un colpo alla nostra identità personale».
E a quel punto, professore, che succede: ci sdoppiamo, diventiamo schizofrenici?
«Succede che non ci ritroviamo più nelle modalità che abitualmente usavamo per riconoscerci» .
Il tratto somatico e la sua manifestazione è ciò che da sempre contraddistingue le relazioni umane. La riconoscibilità è sintomo di sicurezza: sui documenti c’è la nostra fotografia, ed è una conquista. Ora invece la sicurezza passa attraverso il nascondersi, la negazione almeno parziale della riconoscibilità. Cosa significa e cosa comporta nella socialità?
«Non è facile rispondere. Io penso che se la cosa rimane in ambiti contenuti, se l’uso della mascherina è ragionevole e non è vissuta come una ossessione, allora noi rimaniamo sempre noi. Se al contrario diventa un atteggiamento che cambia il nostro modo di porci per le strade, diciamo così, allora può sorgere una sorta di doppia identità con aspetti fortemente destabilizzanti».
Ma in cosa può consistere questo sdoppiamento, questa doppia identità che rischiamo di subire?
«Beh, la difficoltà principale è che accanto alla fisionomia cui siamo abituati, alla riconoscibilità reciproca che determina, all’immagine di noi che lo specchio di casa ci rimanda, si affianca un altro noi, un noi mascherato che offriamo al mondo che ci circonda e che modifica negli altri la percezione di come siamo. Un cambiamento inimmaginabile anche solo fino a pochi mesi fa. E se questo cambiamento finisce per essere vissuto in modo drammatico, può provocare una sorta di scissione interiore. Mi sembra un punto molto delicato».
Però professore noi siamo obbligati a portare questa mascherina, non è una scelta. È lo Stato che ci obbliga a scinderci?
«Diciamo che anche questa faccenda dell’obbligo è una cosa curiosa. Tanta gente andando in giro non la porta. Si tratta di un obbligo per così dire diversificato. Io per esempio che sono guarito non sarei tenuto a portarla. Io comunque la porto lo stesso volentieri perché so benissimo che si tratta di un momentaneo episodio del mio modo di uscire, di entrare i contatto con gli altri. Tuttavia sé questa modalità, questo momentaneo episodio, diventa una costante vissuta drammaticamente nel senso che io non riconosco più me stesso, allora si possono produrre conseguenze anche gravi sulla psiche delle persone, sul loro equilibrio psicologico».
Esiste anche un altro aspetto riguardo l’uso delle mascherine, che finora abbiamo solo sfiorato. Nel corso della evoluzione umana, abbiamo dato sempre maggiore risalto alla parola, al cosiddetto “secondo sistema di segnalazione”. Il primo, cioè il linguaggio non verbale, l’espressività del volto che trasmette informazioni sui nostri sentimenti, è sempre più rimasto sullo sfondo. Se io mi maschero, nascondo in parte il mi volto, chi ho di fronte non sa più se sorrido, se condividilo, se sono arrabbiato e così via. Non può comprendere il non detto, il non verbale. Questo non crea un corto circuito nelle relazioni?
«Direi proprio di sì. Può creare un corto circuito con forme quasi patologiche di diffidenza nei confronti dell’altro. Vede, io questa cosa la percepivo quando ero in ospedale. Non riuscivo a distinguere un infermiere dall’altro. Poi ho trovato modi per riconoscere le persone e i loro atteggiamenti, ho stretto legami che ad un certo punto sono diventati di amicizia. Ma sono state costruzioni limite. Ci sono invece persone, come il filosofo Cartesio, che amavano dire di se’ stessi larvatus prodeo, ossia “procedo mascherato”. In questo senso era nota la quasi patologica diffidenza di questo grandissimo protagonista della modernità. Ma il suo impatto sulla modernità non sta nel fatto che girava mascherato, bensì nel fatto “pubblico” che riuscì a produrre alcuni grandissimi saggi scientifici ai quali fu poi premesso il famoso Discorso del metodo».
Dunque c’è del metodo nel mascherarsi?
«Direi meglio: l’aspetto pubblico è quello privato giocano continuamente tra di loro. Talvolta c’è perfino una sorta di contrapposizione tra pubblico e privato. Nelle grandi personalità questa dicotomia è stata risolta dalla produzione scientifica. Ma per quanto riguarda l’amico che incontravamo uscendo di casa per andare a comprare il giornale, questo universo relazionale è assai più difficile da ricostruire. Si può anche dire che in parte l’abbiamo perduto. La mia speranza è che non sia stato perduto per sempre e che il più rapidamente possibile si ritorni a forme di espressione più consone a ciò che è umano».
Ecco. Dal punto di vista “umano” noi riusciamo a metabolizzare le cose, anche quelle più difficili. Le mascherine sono un esempio. Adesso ci sono quelle personalizzate, con le iniziali, i colori e così via. Come le giudica, professore?
«Lo vedo come un meccanismo di compensazione. Siccome non posso più farmi riconoscere dell’espressione del volto allora ricorro alla “personalizzazione” della mascherina per far sapere chi sono e che sono io. È un palliativo. Noi siamo abili a trovare sostitutivi. Che poi tuttavia creano nuovi problemi. Chi mi dice che non ci sia qualcun altro una mascherina personalizzata uguale alla mia, che so con la bandiera tricolore o con qualche alto simbolo, nera piuttosto che bianca e così via.
Sono forme, come ho detto, sostitutive della identità personale. Torniamo sempre al punto. La mascherina, anche simbolicamente, è un modo per celare l’identità. È anche il primo passo per avviarsi sulla strada della non responsabilità. Se non mi si riconosce, non sono responsabile di ciò che faccio. Le conseguenze “morali” nei casi di mascheramento più patologico, possono essere a mio avviso molto gravi».
Professore, c’è anche un altro aspetto levato alla pandemia e che interseca le relazioni sociali. Parlo del “remoto” come modalità di rapporto interpersonale e sociale. È una salvaguardia sanitaria, ma stravolge il modo di relazionarsi. Che ne pensa?
«Sono d’accordo. Pensi al caso dell’insegnamento universitario a distanza, come viene definito. Da remoto come espressione è ancora peggio. Questa modalità mi pare ci faccia perdere una delle componenti più interessanti dell’insegnamento: il faccia a faccia tra docente e studente. Si tratta di uno strumento enorme di controllo e di valutazione nel corso della lezione stessa. Tutto questo viene perduto e onestamente non capisco bene con cosa si possa recuperare. Stiamo diventando tutti delle università telematiche? Mi viene male solo a pensarci».
Professore, questo distanziamento da remoto è salvavita ma scardina il rapporto interpersonale. Quale aspetto, nel bene e nel male, è più difficile da gestire?
«È tutte e due le cose. Si salva la vita? Certo. Ma tenga presente un aspetto. Se uno esce di casa può essere colpito in testa da una tegola che cade da un tetto. Allora dovremmo vietarci di uscire di casa per evitare tegole vaganti? Certo stando chiusi in casa ci sentiamo più al sicuro. Ma si tratta di una sicurezza ben miserabile» .
Il discorso vale anche per la giustizia, asset fondamentale di un sistema democratico. I tribunali sono chiusi, alcune udienze si fanno a distanza...
«L’esercizio della legge era la prova di un grande teatro. Adesso il grande teatro non più, è sostituito da palliativi. Prima o poi si dovrà tornare alle forme di espressioni classiche della giustizia. Sia nelle aule giudiziarie come in quelle universitarie. Questo tipo di palliativi sono portato a giustificarli soltanto se hanno una durata temporale assai limitata. Questo è il punto di fondo. Se così non fosse, rischiamo di perdere molte componenti rilevanti sotto il profilo umano del nostro vivere sociale».