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Il Novecento è stato, da una parte, il secolo della politica, o meglio della politicizzazione integrale della vita degli uomini, delle enormi masse che hanno fatto il loro ingresso sulla scena della storia, dall’altra, il secolo degli intellettuali, in quanto gli uomini di pensiero hanno avuto voce dominante nel dibattito pubblico e hanno fornito il loro avallo alle idee politiche che hanno dominato.
La politica è stata concepita come realizzazione di un’idea (“ideocrazia”); e le idee sono state considerate vere solo in quanto passibili di realizzazione pratica. Con il corollario che la stessa cultura, da attività disinteressata, si è politicizzata, cioè ha perso la sua autonomia ed è diventata di parte, partigiana. Arrivato nel 1963 a Parigi in fuga dal suo Paese, la Bulgaria, Tzvetan Todorov, che aveva avuto modo di patire in prima persona le sofferenze portate da un regime illiberale, osservava sconsolato l’intellettualità parigina che frequentava, e che tutta o quasi si muoveva nell’orbita del sovietismo o del maoismo: «Mentre da secoli i Paesi occidentali hanno imboccato la via della democrazia, gli intellettuali, che in teoria rappresentano la parte più illuminata della popolazione, hanno invece optato per regimi violenti e tirannici. Se il voto fosse riservato in quei Paesi ai soli intellettuali, oggi vivremmo sotto regimi tirannici».
Perché gli intellettuali hanno abdicato al loro compito? Perché con le loro idee hanno fatto da supporto ai movimenti totalitari o semplicemente illiberali ( in primis il comunismo, il fascismo e il nazionalsocialismo) che si sono proposti di sradicare in modo violento e “rivoluzionario” le libertà individuali considerandole espressione di un mondo che andava abbattuto per poterne costruire poi uno nuovo partendo da zero? Perché questa orgia nichilistica? Sono queste le domande che fanno da sfondo all’ultimo libro di Luciano Pellicani, che si presenta al lettore ( ma solo indirettamente è) come una sorta di apologetica dei “chierici” ( pochi in verità) che non “tradirono” ( per dirla con il titolo di un famoso libro di Jules Benda del 1929): I difensori della libertà ( Rubbettino, pagine 133, euro 13), Sono otto medaglioni, dedicati rispettivamente a Benedetto Croce, Guglielmo Ferrero, José Ortega y Gasset, Simone Weil, Raymond Aron, Friedrich von Hayek, Norberto Bobbio e Giovanni Sartori. In essi non troviamo tanto i motivi che portarono gli autori selezionati a contraddire, ovviamente in un senso e in contesti molto diversi fra loro, lo spirito del loro tempo in nome dei valori di libertà.
Quegli autori sono piuttosto il pretesto per Pellicani di delineare la sua teoria della libertà, o meglio i connotati del suo socialismo liberale. Per prima cosa, va considerato che per Pellicani la libertà economica è condizione necessaria, seppur non sufficiente, per ogni altro tipo di libertà. Croce diventa in quest’ottica, dopo un generico apprezzamento della sua attività di “opposizione morale” al fascismo, il bersaglio di una requisitoria contro la sua idea della possibilità di separare, almeno teoricamente, il liberalismo economico o liberismo da quello etico- politico.
È una questione che ha tenuto impegnate varie generazioni di liberali italiani, ma che certo, per quel che concerne Croce, non può risolversi con una estrapolazione fuori contesto di citazioni. Ciò che va considerata è, da una parte, la dimensione filosofica in cui il filosofo napoletano pone la questione, dall’altro il leit motiv, filosofico appunto, di tutto il suo pensiero e della teoria della libertà ad esso sottesa: la lotta ad ogni forma di determinismo, e in particolare a quello economicistico che egli ritrovava, a torto o a ragione, tanto nei marxisti quanto nei liberisti puri. Ma tale, liberista puro, Pellicani certo non è, mantenendosi la sua posizione in una dimensione che potremmo dire milliana. Come John Stuart Mill, egli crede infatti che il mercato sia il migliore produttore di ricchezze mai comparso al mondo ma anche un meccanismo che crea diseguaglianze che poi tocca allo Stato correggere o limitare. D’altra parte, egli è convinto, con Hayek, che il libero mercato sia anche qualcosa di più: un sistema per raccogliere informazioni e conoscenze diffuse in modo molecolare nel corpo sociale, che nessun pianificatore centrale potrebbe mai possedere per intero, e un democratico luogo di sperimentazione e selezione delle risposte migliori che l’uomo prova a dare ai problemi che affronta quotidianamente. Questo carattere di sperimentazione avvicina il mercato alla pratica riformistica, che il socialismo non marxista oppone a quella rivoluzionaria. Le pagine su Simone Weil servono a Pellicani per contestare alla radice l’idea di “rivoluzione” fatta propria dai totalitarismi novecenteschi, la quale si presenta come una sorta di gnosticismo redivivo, da una parte, e come una continuazione dell’ideale giacobino che era emerso nella Francia rivoluzionaria, dall’altra. Questo ideale fece parlare Ferrero della compresenza, in quell’epocale evento storico, di due diversi tipi di rivoluzione che andrebbero nettamente distinte. Esiste, infatti, una rivoluzione che matura a poco a poco negli spiriti, e porta gli uomini a conquistare una nuova sensibilità e una nuova consapevolezza sui fatti del mondo, che prima o poi si rifletterà anche nelle istituzioni e che segna l’umano Progresso ( un ideale a cui Pellicani non rinuncia).
Ma esiste anche una rivoluzione non costruttiva ma distruttrice, che vuole azzerare le strutture del vecchio mondo per realizzare ex novo un progetto ritenuto razionale o semplicemente lasciare libero spazio alla sua emersione. Questo secondo tipo di rivoluzione, quando si realizza, è costretto a rompere la vecchia legittimità e, non potendone creare ex abrupto una nuova, a far vivere nella diffidenza e paura re- ciproca governati e governanti. In effetti, il progetto razionalistico o ingegneristico, in diversi modi e gradualità, è sotteso a tutta la modernità, nel cui orizzonte di senso il socialismo, in tutte o quasi le sue versioni, si colloca a pieno titolo. Appartiene anche a quel coté riformistico che quando assume le sembianze del progetto welfaristico e socialdemocratico, cioè di un solidarismo organizzato in modo astratto e statolatrico, non può che condurre, per un liberale, a quell’ impasse senza apparenti sbocchi a cui le nostre società occidentali dopo anni di crescita sembrano oggi essere arrivate.
La “quadratura del cerchio”, per usare un’espressione di Ralf Dahrendorf, dalla prospettiva in cui si pone Pellicani diventa veramente difficile. Anche da un punto di vista intellettuale. Il fatto è che l’autore di questo libro resta un illuminista, e quindi usa una logica, quella formale, che nell’interpretazione dei fatti sociali non può che essere sussidiaria. Egli lavora per separazioni nette e successive ricomposizioni concettuali che non riescono a tener dietro alla complessità dei fatti storici che, nella loro costitutiva ambiguità, conservano sempre toni grigi, chiaroscurali. Essendo però studioso intellettualmente onesto, egli è costretto spesso a dare un’interpretazione contraddittoria dei problemi e degli autori che tratta. Ad esempio Croce viene visto come un negatore della libertà individuale dal punto di vista teorico, ma anche co- me un campione della stessa nella vita pratica. Senza contare che la sua filosofia della libertà viene considerata una rassicurazione esistenziale di fronte alla perdita delle certezze metafisiche. Una sorta di “religione secolare” al pari di quelle che stigmatizzava Aron, come è scritto nel bel capitolo a lui dedicato.
Come non rendersi conto che il filosofo napoletano parla di Dio, o dello Spirito, in senso solo metaforico, e spesso per intendere la trascendenza che gli eventi storici, pur generati dall’uomo, hanno rispetto alle sue azioni particolari e alle sue intenzioni ( nulla più che l’ “ordine spontaneo” hayekiano)? La stessa dialettica, che Pellicani giudica una sorta di mistica, non è poi altro che la consapevolezza della storicità e imprevedibilità degli eventi storici, non riducibili a schematismi intellettuali. Molto interessante, e direi di straordinaria attualità, è la critica che Ortega rivolge alla tipologia dell’uomo- massa emersa nel Novecento, e a cui i totalitarismi hanno saputo rivolgersi con particolare efficacia. «Un tempo esistevano questioni che l’uomo medio – scrive Pellicani - riconosceva di non poter intendere, e perciò si affidava al gusto e alla competenza di chi ne sapeva di più. Nel XX secolo, invece, l’uomo medio pretendeva avere le idee più tassative su tutto quanto avveniva nel mondo: non c’era questione della vita pubblica su cui non interveniva, cieco e sordo com’era, per imporre i suoi gusti e le sue opinioni. Di qui il pervicace rifiuto della discussione. L’uomo massa si sarebbe sentito perduto se avesse accettato il metodo del dialogo e, d’istinto, lo rifiutava, e con esso rifiutava lo spirito animatore della civiltà liberale».
Con Bobbio assistiamo infine a una diesa dei “diritti borghesi”, che vanno visti come generali conquiste della democrazia moderna e della civiltà umana, ma anche alla messa in evidenza delle problematicità che restano aperte. I “quattro nemici della democrazia” che egli individua sono, rispettivamente, «le grandi dimensioni, la burocratizzazione crescente, la tecnicità sempre maggiore delle decisioni da prendere, la tendenza alla massificazione della società civile». Evidentemente, i pericoli individuati quarant’anni fa dallo studioso torinese sono solo in parte quelli dell’oggi. E altri, nel frattempo, se ne sono aggiunti. Su di essi tutti toccherà, comunque, concentrarci. Resta sempre valida però la conclusione di Bobbio sulla inesauribilità del compito che abbiamo di difendere le conquiste di libertà. Una conclusione, commenta Pellicani, “che richiama alla memoria la bella metafora di Francesco Saverio Nitti: la democrazia ( reale) è simile alla tela di Penelope. Sempre incompiuta e sempre bisognosa di essere rifatta”