PHOTO
Era il 1994, quando, per la prima volta, cinque bambini uscirono dal carcere romano di Rebibbia femminile per vedere il mare.
Alcuni di loro non volevano scendere dal pullman, altri, i due più temerari, si fiondarono sulla sabbia cercando di raccoglierne il più possibile. Lí, accovacciata sul bagnasciuga, c’era una donna. La sua storia iniziava molti anni prima, ma quel giorno avrebbe incrociato quella di altre donne, alcune delle quali oggi sono libere, altre ancora recluse.
Leda Colombini fondò “A Roma Insieme” nel 1992, con l’obiettivo di trovare un’alternativa al carcere per madri e bambini. «Leda ricordava le battaglie in carcere con estrema commozione. Forse in quei bambini, e nelle loro madri, rivedeva parte della sua storia personale», ricorda Francesco Piva, professore di Storia Contemporanea per oltre quarant’anni e autore nel 2009 di La storia di Leda, da bracciante a dirigente di partito; un libro che nei traccia il percorso formativo alla militanza politica e sindacale. Oggi, a dieci anni da quella pubblicazione, Piva sfoglia quelle pagine con delicatezza: «Gli do un’occhiata nel caso mi dovessero sfuggire delle date, sai, è stata una vita intensa quella di Leda».
Leda Colombini nacque a Fabbrico di Reggio Emilia il 10 Gennaio del 1929 in una famiglia estremamente povera. Il nonno era mezzadro e la madre, dopo esser rimasta incinta dal figlio del padrone, partorì tre figlie. Il padre non le riconobbe mai, e la madre le allevò da sola, aiutata dal suo vecchio genitore. Fin da bambina comprese che la madre soffriva per quella condizione; una condizione che, di fatto, le impediva di mandare la figlia a scuola oltre la primaria. Finita la quinta elementare infatti,
Leda va subito a lavorare come “mondina” nelle risaie vicine a Fabbrico. «Quando non lavora si chiude nella biblioteca del Comune. Legge qualunque cosa, anche se, in pratica, trova quasi tutti libri rosa. Quando torna dalle sue compagne, nelle risaie, le donne si affrettano a metterla al centro. Così tutte in fila, possono ascoltare Leda che narra le storie imparate anche per loro». La storia di Leda inizia a essere “rivoluzionaria” a partire da quegli anni. Nessuno nella sua famiglia era politicizzato; conobbe l’esistenza dei partigiani durante i “filò”, vale a dire le serate in cui famiglie contadine si riunivano nella stalla per riscaldarsi; si mangiava, si raccontavano storie e nascevano amori. Fu lì che sentì parlare per la prima volta della Resistenza e della possibilità di parteciparvi attivamente, cucendo maglioni, calze e vestiti per i partigiani.
Alla fine della guerra si iscrive giovanissima al Partito Comunista Italiano ed entra nelle file dell’Udi dove conosce Nilde Iotti. Il partito la manda alla scuola centrale per quadri dirigenti, dislocata allora a Milano. Furono sei mesi che Leda ha ricordato come «difficilissimi» ma anche fondamentali. Prima di allora parlava solo il dialetto e – come lei stessa ha raccontato – in quei mesi imparò l’italiano, un po’ di storia, di economia e di geografia. In effetti, subito dopo la guerra, il Pci si ritrovò con masse di iscritti per la maggior parte analfabete, per questo fu allestito un vero e proprio sistema scolastico- educativo che, partendo dalle sezioni, passava per le province, le regioni e arrivava fino alle scuole nazionali, come quella di Milano dove approdò Leda.
Dopo quel periodo ritornò a Fabbrico ma, nell’estate del ’ 49, il giovane segretario nazionale della Federbraccianti, Romagnoli, la chiamò a collaborare nella gestione del grande sciopero nazionale dei braccianti – lo sciopero dei 40 giorni – che ovviamente coinvolgeva anche le mondine. Ogni anno, la stagione della “monda” richiamava nelle risaie del Piemonte decine di migliaia di braccianti soprattutto dell’Emilia Romagna che il sindacato assisteva a diversi livelli, dalla all’allestimento di iniziative culturali e ludiche per il tempo libero.
Sempre nel ‘ 49, al congresso nazionale della Federbraccianti entrò nella segreteria nazionale che le affidò la guida delle braccianti ( su un milione di iscritti, costituivano quasi la metà). In questa nuova veste, Leda – poco più che ventenne – affrontò le fragili condizioni lavorative delle donne in diversi comparti agricoli: oltre all’annuale campagna per le mondine, diede innovativo impulso all’azione sindacale tra le braccianti più sfruttate e meno riconosciute, quelle del Sud ( raccoglitrici di olive di castagne, di gelsomini ); «Furono gli anni in cui si mise alla testa dei cortei, accanto agli uomini, occupando le terre. La notte le capitava di dormire nelle stalle, insieme agli asini».
«Quando pubblicammo il libro - ricorda ancora Piva - Leda volle presentarlo a Fabbrico, da dove era partita, più di ottant’anni prima». La sala era gremita di facce che non esistono più, facce di contadine che, silenziosamente, portavano sulla pelle i segni di quelle lotte. Se iniziò a varcare la soglia del carcere, fino a morirci, era perché vedeva nelle donne recluse la tragica eredità di una battaglia mai vinta. «Se si concedessero gli arresti domiciliari alle donne condannate per reati che prevedono soluzioni alternative alla detenzione, il 97% delle donne non varcherebbe la soglia dei penitenziari, e con esse neanche i bambini». Diceva Leda, vent’anni fa.
Oggi a Leda Colombini è dedicata la prima e, praticamente unica casa famiglia per madri detenute, non è una sezione “carina” all’interno di un carcere, né un istituto di custodia attenuata, è una casa. Con delle finestre e non delle sbarre. Sono 2.713 le donne recluse ora in Italia, ossia appena il 5% dell’intera popolazione detenuta ( 61.174, per una capienza regolamentare di 50.476). Nonostante la legge imponga una serie di situazioni ritenute incompatibili con il regime carcerario, e nonostante tra queste vi sia appunto quella di «madre di prole di età inferiore a tre anni con lei convivente», le madri oggi in carcere sono 52, con 56 figli al seguito.
Nel sud del Malawi, c’è una prigione di massima sicurezza, Zomba prison. Venne costruita durante la colonizzazione inglese, con una capienza di 340 persone massimo. Oggi ospita più di 2.000 detenuti, tra cui decine di madri con bambini. Nell’angolo di terra rossa recintato dove vivono quelle detenute, è stata composta una canzone. Se il grado di civilizzazione di un paese si misura dalle sue prigioni, come scrisse Dostoevskij dopo aver trascorso quattro anni di reclusione in Siberia, quella canzone sarebbe potuta essere stata scritta anche in Italia.
«Tu uomo, non hai pietà, cosa stai facendo a mio figlio ma, fratello, cosa ha fatto lui di male?
Io l’ho cresciuto da sola. E da sola sto soffrendo» Leda morí all'età di 82 anni, nel carcere di Regina Coeli. Dove tutto è cemento ma lei vedeva sabbia.