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«Quando smetterete di cadere per le scale?». A chiederlo è un secondino, un agente di polizia penitenziaria. «Quando smetteranno di picchiarci». A rispondere è Stefano Cucchi. Questo dialogo è diventato una sorta di parola d’ordine sui social, copiato e incollato ovunque, nelle discussioni fuori sui cinema o sui prati e nei centri sociali.
Sulla mia pelle, come non succedeva da anni - neanche per La grande bellezza, che pure era entrato prepotentemente nel dibattito pubblico - ha riportato un film all’interno della dialettica di un paese. Non si parla d’altro, tutti vogliono vederlo. Un miracolo per una realtà marginale, commercialmente e purtroppo culturalmente, come il cinema italiano. Ora tutti sembrano darlo per scontato, eppure la storia di Stefano Cucchi poteva essere respingente e quindi fallimentare. Tanti, troppi di fronte alle prime recensioni positive, hanno reagito istintivamente con un “non so se ce la farò a vederlo”. Lo stesso accadde per lo splendido Diaz di Daniele Vicari con cui Sulla mia pelle di Alessio Cremonini condivide una fedeltà e un’onestà intellettuale verso il materiale processuale e verso la ricerca della verità quasi insopportabile. Ma rispetto a Diaz, che pure ebbe successo in Italia ( 2 milioni di incasso) e fu venduto all’estero, ora c’è Netflix. Ovvero 130 milioni di utenti per 190 paesi e la novità di un’uscita contemporanea in streaming legale e in sala. Il luddismo conservatore tipico di un’Italia pigra e corporativa ha reagito violentemente: in particolare l’Anec e l’Anica, che l’hanno visto come un attacco alla sacralità della sala. Senza capire, purtroppo, che l’enorme visibilità e l’incredibile successo di questo film, anche in sala ( seconda media per sala delle ultime uscite), nasce proprio da quel pubblico raggiunto in poche ore. Più che un passaparola, uno tsunami, sottolineato da quella commovente seppur ambigua ondata di proiezioni gratuite pirata che non fanno altro che aumentare il “mito” del film. Commovente, perché costituita da giovani avidi di una storia dura, dolorosa, terribile, di farsi parte di un’indignazione civile. Ambigua perché chi ha “approfittato” del film - che pure era stato messo a disposizione di queste iniziative sociali dal 12 ottobre dai produttori con l’avallo della famiglia Cucchi, che in proposito ha fatto un appello esplicito - ha deciso di agire contro quel produttore, Lucky Red, che ha rischiato di suo per raccontare quella storia che, “piratata”, potrebbe non convenire narrare ad altri. Lo hanno fatto alla luce del sole ( spesso troppa, tanto da non riuscire a vedere le immagini sui lenzuoli appesi in questi immensi consessi) perché sapevano che mai, visto il tema di quel film, avrebbe chiamato le forze dell’ordine per impedirlo. E hanno fatto vedere un bellissimo film nelle condizioni peggiori.
Una storia italiana, fin troppo. Perché mentre Stefano faceva tanti miracoli, dal far diventare di massa una storia che aveva trovato l’attenzione mediatica solo grazie all’eroismo di Ilaria Cucchi, al far tornare il cinema al centro di tutto, mostrandoci un pubblico avido di storie difficili e impegnate, ci si dedicava al tafazzismo. Gli esercenti, per dire, hanno pensato bene, in gran parte, di boicottare il film. E giustamente il loro rappresentante, guarda un po’ quell’Andrea Occhipinti di Lucky Red che ha messo parecchio di suo per costruire il film e poi ha puntato su questa doppia distribuzione contemporanea, ha mollato. «Ho deciso di dimettermi perché la nostra scelta di distribuire Sulla mia pelle di Alessio Cremonini in contemporanea nelle sale e su Netflix ha creato molte tensioni tra gli esercenti che lo hanno programmato ( pochi) e quelli che hanno scelto di non farlo ( molti). II successo del film ha aumentato queste tensioni. Nonostante esistessero dei precedenti in Italia e ci sia un acceso dibattito a livello internazionale, non voglio che una scelta puramente aziendale venga considerata come una posizione della sezione distributori dell’Anica, visto il mio ruolo. Per non creare ombre o imbarazzo ai miei colleghi, ritengo quindi opportuno lasciare la carica di Presidente». Una dichiarazione dura nella parte iniziale e solo apparentemente conciliante nella seconda che fa capire quanto sia lontano il mondo dell’industria cinematografica non solo dalle esigenze del pubblico ( altrimenti quelle sale indegne le terrebbero meglio) ma addirittura dalla propria stessa convenienza. Senza Netflix, senza i pirati sociali, senza la fame di questa storia alimentata di ora in ora, non ci sarebbe stato questo clamoroso successo di pubblico ( non economico, ed essendo il cinema anche un’industria, è un problema) e questa penetrazione nell’immaginario collettivo. Merito di Alessandro Borghi, che ha il talento cristallino dei migliori interpreti americani degli anni ’ 70 e una modernità di sguardo e recitazione straordinari, della scrittura limpida e tesa di Lisa Nur Sultan, della regia impietosa di Alessio Cremonini, di un Max Tortora sontuoso e di una Jasmine Trinca come sempre perfetta. Ma soprattutto di Stefano Cucchi. Che ha lasciato abbastanza semi per far germogliare una storia tragicamente vera, spudoratamente onesta, raccolta da chi non ne ha voluto fare un santo, pur essendo morto da martire.
Questo non è solo un film. Stefano Cucchi siamo noi, per questo lo sentiamo tanto sulla nostra pelle. Stefano, e quindi Alessandro, è tutti noi che le abbiamo prese da chi avrebbe dovuto proteggerci, tutti voi che potreste ogni giorno inciampare in scale che non smettono di picchiarvi. Quest’omicidio di stato ci rimane tatuato addosso nella sua verità, nella disperazione di un ragazzo indifeso che sbaglia troppe scelte e muore perché non trova rami a cui aggrapparsi. Non smettiamo di andarlo a vedere. Sosteniamo il film, sosteniamo la famiglia Cucchi che rimane uno dei pochi motivi per essere fieri di essere italiani. Continuiamo a sentire questa ingiustizia, questa infamia sulla nostra pelle. Ogni giorno, ogni volta che avremo la tentazione di voltare lo sguardo dall’altra parte. Perché Stefano ha cominciato a morire per le botte di quei carabinieri, ma il colpo di grazia l’ha ricevuto dall’indifferenza complice di tutti coloro, con camici e divise e toghe, che non lo hanno aiutato e difeso. Solo facendo valere i suoi diritti. Abbiamo il dovere di non rimanere indifferenti. E di andare in sala, perché non si smetta di raccontare le storie che non vorremmo vedere. Ma dobbiamo.