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Questa stagione cinematografica verrà ricordata anche per il successo del cinema noir. Con in più una novità importante: da isolati film-evento si è giunti alla nascita di un vero fenomeno culturale, che aiutato dal traino del passaparola e dei serial, sta apportando tecniche e linguaggi innovativi al genere. In quest’ottica, La misura del dubbio (Le fil, nel titolo originale), terza regia cinematografica di Daniel Auteuil, ha rischiarato l’autunno, veloce e luminoso come un bolide, lasciando a critica e pubblico una scia persistente di emozioni e consapevolezze.
Il film va fatto però decantare, come un opulento rosso di Bandol, per serbarne le sensazioni più autentiche. Quello che stupisce, al di là della resa in scrittura cui lo stesso Auteuil ha partecipato, o della regia, al servizio di una successione vertiginosa di fatti, eppure equilibrata nel districarsi in una selva di emozioni contrastanti, è la testardaggine con la quale Nelly, figlia del regista e coproduttrice del progetto, ha voluto rispettare la verità giudiziaria della storia. Il racconto da cui Le Fil è tratto si deve a un penalista di Lille, prematuramente scomparso nel 2011. Il professionista, attivo come blogger, aveva grandi doti di umanità e una penna particolarmente sensibile. Colleghi e amici sono riusciti nell’assemblare editorialmente una raccolta che ha avuto grande successo in Francia, e che fa trasparire il tormento e l’esperienza del mestiere di legale. Un racconto in particolare, basato su un reale caso di uxoricidio in Bretagna che vedeva accusato un immigrato padre di sei figli, ha fatto innamorare, pagina dopo pagina, Nelly Auteuil.
Daniel ha abbracciato la storia, seguendone appunto il filo. Nell’adattamento, tutto si svolge tra i colori e le notti della Provenza, e a raccogliere la difesa nella convinzione che l’accusato sia estraneo ai fatti è un avvocato penalista rimasto a lungo lontano dall’aula. La grande umanità del protagonista, che l’Auteuil attore mette in scena contro le proprie passate sconfitte professionali, emerge nel tentativo di salvare la libertà e buon nome del signor Milik, che Grégory Gadebois interpreta con grande sapienza, in cui crede il suo difensore di avvertire dolorose verità nascoste dietro una cortina di ritrosie e lacrime. La storia ha corpo, struttura, ritmo, e nei capovolgimenti risulta particolarmente efficace. La macchina da presa segue gli stati d’animo di ognuno, nella dimensione dell’interiorità violata della casa, nell’ambiguità di un bar o nell’angoscia asettica del parlatorio.
E quando lo sguardo di Auteuil si sposta verso i grandi spazi naturali, trasformati in tableaux vivants, la storia ne acquista colori e respiri. I dialoghi sono serrati, costellati di silenzi corrucciati e dolorosi, proprio come il volto dell’attore- autore, capace di indagare generi, storie ed esistenze diversi con giuste energie e sensibilità.
Per questo, La misura del dubbio, pur essendo un thriller giudiziario moderno, va inserito a pieno titolo in una continuità di genere, cui però aggiunge una spiccata connotazione territoriale, e una naturale abilità nel raccontare la complessità psicologica degli esiti di una morte violenta in ambito familiare. Ne deriva un’epica minimale e perciò ancora più verosimile, di sconfitti, che in sede di processo volutamente stride nello scenario barocco dell’aula, dove avvocato e Procuratrice in toga sembrano riecheggiare anche nei gesti il grande passato della Scuola Transalpina, e l’eredità in carboncino di Honoré Daumier. Ancora una volta, a sanare la dialettica tra forma e sostanza della Legge, è, semplicemente, la scelta stoica dell’humanitas. Il legale prende su di sé una storia altrui, e il suo carico di paure, dubbi, colpe, non per chiedere sconti o sovvertire la realtà dei fatti, quanto piuttosto per sanare la doppia angoscia dell’imputato di subire un violento distacco e in più doversi discolpare dall’infamia di avere ucciso la propria compagna, strappandola all’amore dei figli.
Le Fil segue dunque i crismi del realismo poetico francese, anche nella scelta dei personaggi, in un continuo ed efficace dialogo tra essere, dover essere, voler essere.
I fotogrammi scorrono veloci, mostrando in filigrana la vittoria della coscienza individuale e dell’analisi freudiana sulla predestinazione hegeliana o sul superomismo nietzschiano, senza dimenticare la lezione sull’artisticità di ogni vita in Warhol e sul concetto di vittima in Pasolini.