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La Calabria assomiglia ai suoi piatti tradizionali. Poveri e semplici, ma capaci di «creare attimi irripetibili di poesia». La Calabria è intensa come il libro di Margherita Catanzariti, scrittrice di Locri, già autrice di “Segui sempre il gatto bianco”, che di quella terra celebra la nostalgia: la malinconia di chi resta sognando di andare via, e di chi parte sapendo di tornare ogni volta che può. “Sei nelle mie radici” - fresco di stampa per la Città del Sole - parla soprattutto di questo. Dentro c’è la violenza. Quella dell’amore, e l’altra che con l’amore non ha niente a che fare. Margherita parte da qui: la sua protagonista è una vittima, ma senza moine ideologiche. Si chiama Nina, la sua protagonista. Una giovane donna cresciuta al riparo dalla tradizione che imprigiona e qualifica al Sud. Nina è bella. Del suo corpo, dopo qualche pagina, conosciamo ogni linea: mentre seduce, Nina, il suo coprotagonista e il lettore attraversando la sala in un vestito che le fascia il bacino. Nina è libera. Soprattutto di essere immorale: ma non per il sesso, né perché gode con tutta se stessa. È immorale perché non somiglia a nessuno, ha solo il suo Pietro: tormento e furore. L’uomo che si è convinto di averla cresciuta - lui che le ha insegnato a conoscere il suo corpo di adolescente - fino a convincere anche lei. Pietro è la parte buona di quella violenza, la parte dell’amore. L’altra comincia e si esaurisce nel primo capitolo: è quello il tempo che Nina concede ad Antonio per tenerla stretta per i capelli, sul punto di lanciarla giù dal balcone. Troppo lungo, ma sufficientemente corto per potersi salvare. Tutto ciò che accade subito dopo, fino all’ultimo respiro di questa storia, segna lo strappo risoluto dall’uomo - Antonio, forestiero di origini calabresi - venuto dall’America delle migrazioni di massa e rispedito al mittente. Ma non è una storia di emancipazione, questa: si tratta di una donna qualunque che inciampa nelle briglie dei mali moderni senza esserne schiava. Questa è una storia di dolore che non eccede mai in morbosità: la tristezza di Nina è leggera, è intima e delicata. È proprio questa la sua magia: strega, Circe - come la chiama il suo amante. La stessa magia di un’alba sulla costa ionica che illumina per un istante le nefandezze di una terra tradita. Nina è triste perché: come è potuto accadere proprio a lei? È triste perché Pietro tutte le volte torna da sua moglie Adele. Perché convive con la rassegnazione di un popolo che pare compiaciuto nel proprio torpore. Perché ha un segreto che non può confessare. Lei, Nina, erede inconsapevole di quella rivoluzione sessuale che cinquant'anni fa «a modo suo, era arrivata anche nelle campagne calabresi», raccogliendo lo spirito delle donne magno greche «pronte a tutto per difendere il loro diritto alla gioia». Lei, Nina, che offre un racconto diverso della Calabria: proprio mentre sull'ennesima passerella mediatica, costruita sull’altare della parola ‘ndrangheta, avanza l’ultimo senatore locale ammuffito, ricacciato per l’occasione. Nina è protagonista del suo destino: non resta per raccontare tutto quello che manca in Calabria - la “piaga”, come la chiamano. Resta per parlare della bellezza nascosta tra la gente, tra i sogni dei migranti che raggiungono le nostre coste. Ai bordi della lunga e demonizzata statale 106, in mezzo alle linee curve dell’Aspromonte. E si domanda: chi la merita questa bellezza? Quell’incanto che si rivela a tavola e a letto, tra le lenzuola. Tra le pagine - voluttuose sì, ma anche severe - di Margherita Catanzariti. Nel ventre della Calabria, come direbbe Matilde Serao: con lo sguardo immerso in quell’altro versante ionico, che non affaccia soltanto sulla cronaca nera.