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La democrazia dell’algoritmo Nel dibattito sulla crisi della democrazia rappresentativa o liberal- costituzionale c’è qualcosa che stona. Si ha l’impressione che causa o rimedi siano cercati da studiosi anche illustri ponendo mano a un vecchio armamentario, a vecchi concetti e strumenti di ricerca. Ne esce fuori il più delle volte la convinzione che la crisi attuale sia dovuta all’intervento di forze destabilizzanti che basta neutralizzare per ritornare ai vecchi e felici tempi che furono. E se le cose non fossero così semplici?
E se i “populismi” e i “sovranismi” non fossero anche la spia di qualcosa di più profondo che poco ha a che fare con i fascismi del tempo che fu e molto col fatto che la politica è il riflesso di un mondo che è cambiato nel profondo?
Questi fenomeni sono forse il riflesso, inquietante e affascinante al tempo stesso, delle trasformazioni tecnologiche che stanno cambiando radicalmente le nostre vite e che intervengono pesantemente non solo sulle modalità di comunicazione della politica ma anche nei processi di persuasione e ricerca del consenso.
L'inizio Prendiamo una data con cui far iniziare simbolicamente questa rivoluzione: il 2008. E’ in quell’anno che Barack Obama costruisce scientificamente la campagna elettorale che lo porterà alla presidenza degli Stati Uniti puntando tutto sull’immagine di uomo nuovo, progressista, aperto al mondo e ai cambiamenti della società. Si serve di esperti comunicatori ma anche di tecnici che sanno come catalogare, integrare, connettere e utilizzare tutti quei dati ( i Big Data) relativi alle persone che vengono a contatto con l’aspirante presidente o che semplicemente vengono giudicati “influenzabili” dalle sue idee e perciò “raggiungibili”.
È l’algoritmo della politica che, in base a incroci sofisticati, profila gli individui e li fa oggetto, ognuno nella sua specificità, di un messaggio personalizzato che, proprio per questo, mira al cuore e al cervello di chi lo riceve. Inutile dire poi che il messaggio viene veicolato soprattutto sui social network, il cui uso stava allora diventando sempre più sistematico, immediato e continuo tramite l’ingresso sul mercato di massa di smartphone sempre più sofisticati che integrano immagini, parole, suoni.
La manipolazione delle menti Si ripropone, ad un livello molto più avanzato, il classico problema della persuasione e della manipolazione delle nostre menti, che già aveva ispirato una discreta letteratura, per lo più sociologica ma anche fantascientifico- distopica, nell’immmediato secondo dopoguerra.
Resta però il fatto che, per ogni persuasore o manipolatore, deve esserci sempre qualcuno pronto a farsi persuadere o manipolare. L’impressione, detto altrimenti, è che quella che manca ai fruitori del messaggio, e che costituisce problema, sia soprattutto una compiuta educazione al digitale e alle tecniche e all’habitat del “nuovo mondo”.
È come se si fosse creata una asimmetria rilevante soprattutto per la presenza di politici molto scaltri, o semplicemente innovatori. È come se qualcuno avesse giocato d’anticipo, prima che la società facesse a tempo ad attrezzarsi, non con le leggi o coi regolamenti ma con una diffusa sensibilità, a fronteggiare la pervasività dell’algoritmo.
Perché non c’è nulla da fare: se so che l’algoritmo esiste, e un po’ ne capisco pure qualcosa, sono poi libero o no di assecondarlo: la partita, per quanto complicata, è fra noi due.
Chi in politica ha giocato d’anticipo è stato proprio Obama, come dicevamo.
Lo strabismo dei media Risulta perciò alquanto strano che i media mainstream che oggi vedono in Donald Trump un pericoloso manipolatore e “spacciatore” di fake news abbiano giudicato un innovatore da guardare con simpatia colui che per primo si è adattato ai nuovi tempi e ha introdotto in politica certe tecniche ( che poi come è naturale chi è venuto dopo ha solo perfezionato). Ma tant’è!
Quel che preme qui sottolineare è che la politica al tempo dell’algoritmo è anche una politica per giocoforza molto disintermediata, spesso peer tu peer. La politica, cioè la ricerca dell’utile in senso lato, non scomparirà mai, almeno fino a che sulla faccia della terra esisterà l’uomo così come noi lo conosciamo.
La politica, nella sua essenza, non può morire, ma morire possono, ed è già avvenuto tante volte in passato, le forme particolari che essa assume di volta in volta nella storia e che sono quasi sempre il risultato del mondo che gira attorno ad essa. La democrazia rappresentativa e liberal- costituzionale, ad esempio, è il modo in cui si è garantita la libertà in epoca moderna, cioè nel tempo delle grandi strutture e organizzazioni.
Che in una società sempre più liquida, digitale, iperconnessa e immediata quale è la nostra, la libertà debba cercarsi altre forme, che non riusciamo a vedere ma forse nemmeno ancora ad immaginare, mi sembra pacifico.
Prendiamo il partito politico di massa, con la sua organizzazione rigida, il suo blocco sociale di riferimento, con una ideologia o idee ben definite e individuabili e con uno zoccolo duro di elettori più o meno stabili. Ogni tanto se ne rimpiange l’esistenza e ci si sforza di farlo rinascere, ma si può pensate seriamente che sia possibile farlo rinascere così com’era mezzo secolo fa? Oggi, nell’epoca della iperconnessione e della comunicazione immediata ed emotiva?
Il futuro dei partiti Se tutto cambia rapidamente, se le appartenenze si moltiplicano e incrociano così come le aggregazioni e le disaggregazioni fra gli individui, si può pensare davvero che quel “sacrificio dell’intelletto” e della volontà che è sempre stato il partito politico ( si pensi solo alla critica impietosa che ne fece Simone Weil), possa avere un futuro?
Molto probabilmente il ritardo e la goffaggine che mostra certa sinistra classica attualmente dipende anche da questa incapacità di cogliere i movimenti reali: dalla volontà “conservatrice” di resistere, in modo vano e alla fine perdente, ai cambiamenti che impone la società e che le nuove forze politiche, criticabili quanto si vuole, sanno con maestria intercettare.
I Cinque Stelle di Luigi di Maio con Rousseau, ma anche Matteo Salvini con quell’insieme integrato di comunicazione via social che viene chiamato “la bestia”, si muovono sulla scia di Obama e Trump. Non così il PD. Qualche settimana fa leggevo la comunicazione con cui Enrico Morando, un politico serio e che stimo, annunciava felice l’apertura di un suo profilo sui social. Farlo solo oggi, dieci anni dopo Obama, credo che dica tutto sui ritardi di una sinistra chiusa in sé stessa e che non abbia bisogno di ulteriori commenti!
La crisi del Parlamento Consideriamo ora un altro asse portante, e anch’esso in profonda crisi, della democrazia moderna: il parlamento. È lì, in quel luogo “sacro”, che si dovrebbe discutere, confrontarsi, mediare, deliberare. E ogni deputato, senza vincolo di mandato, dovrebbe rispondere solo a se stesso e fare gli interessi della nazione.
Ma la sua decisione non arriverà troppo tardi? E il deputato può ignorare del tutto gli umori fuggevoli dei suoi elettori che monitora ogni giorno sui social e con sondaggi appositamente commissionati? Si può realisticamente oggi governare il meno possibile per decreti, come la correttezza istituzionale vorrebbe, e aspettare l’esito delle intricate discussioni parlamentari?
Credo che certi “sacri” dettati più che inattuali siano oggi di difficile applicazione. E che dire di quel diaframma che separava nettamente un tempo i poteri e poi il pubblico dal privato, la guerra dalla pace, la sicurezza dalla libertà, il reale dal virtuale, il vero dal falso?
L’impressione è che i tanti paletti che mettiamo ( ad esempio le leggi sulla privacy) siano tanto potenti e pervasivi quanto una labile difesa che le tecnologie di nuova generazione faranno presto crollare. E l’impressione è ancora che i “populismi” e i “sovranismi” siano un transitorio mix di vecchio e nuovo che le nuove sintesi e i nuovi equilibri che la storia ci presenterà li supereranno o, come direbbe Hegel, li “invereranno”.
Essi segnalano un problema reale, non colto dalle forze politiche tradizionali, come lo scollegamento fra élite e popolo. Tuttavia sono costretti a trovare nel passato anche remoto soluzioni che però sono insufficienti. Meglio però questo sforzo che non credere che il problema e pensare, con le nostre classi dirigenti, che nulla sia cambiato e che occorra riportare semplicemente il mondo nei suoi cardini.
Mondi irreali È patetico e velleitario pensare di rimettere ordine nel mondo del caos eliminando i sopravvenuti disequilibri quasi come fossero passeggere infezioni. E farlo moltiplicando leggi, regolamenti, norme, ispirandosi casomai alla perfezione di un mondo che è solo nelle nostre menti.
L’equilibrio si ricreerà, certo, ma da solo e sarà diverso da come noi possiamo immaginarlo. Il nostro compito è di capire la realtà e la tecnica, non averne paura, mettere in campo tutte le nostre risorse morali e di creatività. Vasto programma!
Oggi la tecnologia ha cambiato tutto: il potere, la politica, esisteranno sempre, e così pure il bisogno profondo di libertà delle umane genti ( il liberalismo se volete), ma esse si adatteranno alla nuova struttura della realtà, e direi persino dello spazio e del tempo, e quindi della mente umana, che il capitalismo dei dati o dell’informazione sta disegnando velocemente sotto i nostri occhi.
Quando sopra si parlava della manipolabilità e influenzabilità delle coscienze si trascurava però di dire che il processo è biunivoco anche nel senso che spesso, tastando gli umori dei propri elettori, politici e governanti seguono i loro desideri prima ancora di proporsi semplicemente di controllarli e indirizzarli. Diciamo che il classico problema del rapporto fra necessità e libertà qui si pone ad un livello più alto e più complesso, ma senza perdere le sue caratteristiche di fondo.
Un fondo di necessità La libertà individuale, anche quella quindi che si esprime nelle scelte politiche e nel voto, non può esercitarsi che a partire da un fondo di necessità, o se si preferisce a partire da una serie di condizionamenti di vario tipo che ci derivano dalla tradizione, o dalla società in cui viviamo, o anche da idee e regole ( compresa quella di una sregolata libertà) su cui abbiamo costruito la nostra individualità.
Ma una scelta è libera proprio nella misura in cui si affranca da certi condizionamenti e diventa, con tutte le contraddizioni del caso, condizione di se stessa. In questo senso, è vero che le procedure di razionalizzazione, organizzazione, disciplinamento, della nostra personalità, possono beneficiare di un ausilio della tecnica un tempo inimmaginabile, e comunque non raggiungibile da una singola mente umana; ma è pur vero che sta a noi sempre accettare che questa razionalizzazione si leghi al potere in maniera così stretta che essa diventi legge coercitiva e non permetta quella sana indisciplina in cui, entro determinate coordinate, consiste la libertà umana.
La scelta stessa degli algoritmi, per quanto fatta da esperti che ritengono in questo modo di adeguare il reale, è frutto invece di scelte un ultimo lato umane, e quindi di un concreto di esercizio di potere. La “soluzione” a questa dialettica, ammesso e non concesso che ne esista una, è per il liberale non quella di pretendere di uscire dal conflitto ma di diffonderlo: in sostanza opponendo ai poteri, man mano che si creano, altri poteri che, in qualche misura, si controllino e limitino l’un con l’altro.
La storia non è finita, forse è appena cominciata.