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Era la Beat generation uno dei fenomeni esistenziali e creativi più interessanti che il dopoguerra americano. E Jack Kerouac era il suo profeta. Sebbene non avesse la patente di guida... On the Road è il suo romanzo più famoso. Uscì nel 1957. In questi giorni compie 60 anni. In Italia fu accolto male. Alla nostra intellettualità non piaceva tanto individualismo. Anche Montale lo detestò.
«Il tipo umano che ha costruito l’America era nomade», disse una volta Ezra Pound. E con lo sguardo sull’America degli anni ’ 50, Jack Kerouac descriveva così quel tipo umano: «Nomadi con il sacco sulle spalle, vagabondi del Dharma, che si rifiutano di aderire alle generali richieste ch’essi consumino prodotti e perciò siano costretti a lavorare per ottenere il privilegio di consumare tutte quelle schifezze che tanto nemmeno volevano veramente come frigoriferi, apparecchi televisivi, macchine, almeno macchine nuove ultimo modello, certe brillantine per capelli e deodoranti e generale robaccia che una settimana dopo si finisce col vedere nell’immondezza, tutti prigionieri di un sistema di “lavora, produci, consuma, lavora, produci, consuma”: ho negli occhi la visione di un’immensa rivoluzione di zaini, migliaia, o addirittura milioni di giovani americani che vanno in giro con uno zaino».
Era la beat generation, uno dei fenomeni esistenziali e creativi più interessanti che il dopoguerra americano trasmetteva alla vecchia, disincantata e conformista Europa. E Jack Kerouac era il suo profeta: nato il 12 marzo ’ 22 a Lowell, nel Massachusetts, lo “sciamano del beat” ha espresso in pieno lo spirito dei giovani della sua epoca, anche attraverso le sue personali contraddizioni. Sebbene non avesse la patente di guida, adorasse sia la mamma che l’America, si proclamasse cattolico e anticomunista, e sebbene fosse un appassionato di baseball e non amasse i militanti delle battaglie politiche, rappresenterà per sempre l’icona libertaria di una vita autenticamente inquieta, libera e sfrontata.
On the Road (“Sulla strada”), il suo romanzo più famoso, racconta in slang e in forma autobiografica le peripezie di uno scrittore, Sal Paradise, che gira mezza America con passaggi in auto, e in questo modo interpreta e celebra al meglio lo spirito di una rivolta generazionale che stava covando nelle giovani generazioni dalla seconda metà degli anni ’ 50. «Ai tempi che Kerouac mise in moto tutta questa baracca – ha raccontato la principale ambasciatrice e traduttrice della cultura beat in Italia, Fernanda Pivano, di cui il prossimo 18 luglio ricorre il centenario della nascita – era soprattutto una go generation.
Dove andassero non lo sapevano di certo, quei dolci insopportabili patetici insolenti hipster dal volto d’angelo che zigzagavano gli Stati Uniti come noi più tardi le nostre piazze del Duomo in cerca di altri amici con cui andare, dove, chi lo sa, ma andare».
L’intuizione era proprio quella. «La strada è la vita», afferma Dean Moriarty ( Neal Cassady nella vita reale) in un passo di On the Road. Un’idea prossima alla “festa mobile” evocata da Hemingway in riferimento a un’altra generazione inquieta, quella degli anni ’ 20. Ma negli anni ’ 50 molte cose sono cambiate. A proposito di Cassady, Kerouac scrive che «la sua anima è racchiusa in una veloce automobile», una metafora in cui c’è tutto il bisogno di una generazione di andare oltre, di spostarsi, di cercare nuovi orizzonti, di proporsi come moderni cavalieri erranti. Paradossalmente, il co- protagonista di On the Road cerca inutilmente di insegnare a guidare l’auto a Kerouac e a fargli prendere la patente. «Keroauc – annota Emanuele Bevilacqua in Guida alla beat generation ( Edizioni Theoria) – è a disagio al volante e non approfitta del suo alter- ego Sal Paradise per trasformarsi in un mago delle quattro ruote. Quando prende il volante finisce subito in un fosso e gli altri sono peggio di lui. E di autostop nemmeno a parlarne. Son più le volte che sono costretti a prendere un autobus, il Greyhound, che le occasioni di acciuffare un bel passaggio».
D’altronde, la vocazione iniziale di Jack era infatti genuinamente letteraria. Racconta il suo biografo Steve Turner: «Dopo aver letto Thomas Wolfe, la sua ambizione non fu quella di arrivare all’apice della carriera e di guadagnarsi ricchezza e rispetto, ma di esplorare quel grande continente. C’era un’altra America là fuori, che nessuno cantava; un’America cruda, primitiva, dove lo spirito era rimasto indomito e non era stato plasmato dalla infaticabile macchina del materialismo moderno». E così scoprì il vagabondare come scelta di vita. On the Road: sulla strada, appunto. «Andare sempre, non importa dove», era per Kerouac l’unica filosofia possibile «in questa società di merda», come era solito affermare.
E così, sessant’anni fa, il 1957 – anno di pubblicazione negli Stati Uniti di Sulla strada – diventa l’“anno uno” dell’era beat: più che un successo letterario, un fenomeno esistenziale e di costume, una rivoluzione nell’immaginario occidentale. «La prima tappa – scrive Vito Amoruso in La letteratura beat americana
( Laterza) – sarà, dunque, On the Road, il romanzo che, nel 1957, segnò la nascita ufficiale, quella letteraria, della leggenda della beat generation: i fatti, le avventure, le scorribande, le immense orge d’automobili e di sesso e di alcool di cui questo romanzo parlava, erano, in verità, accaduti già prima, in una sorta di America sotterranea e anti- ufficiale, a ridosso immediato del dopoguerra».
Per mettere su carta questa rappresentazione, a Kerouac bastarono ventuno giorni. Certo, già dal ’ 48 aveva lavorato a una sua prima stesura. Ma è nel ’ 51 che ci riprova in uno stile molto céliniano: senza segnare, senza punteggiatura, senza paragrafi e senza spaziature nel testo. Lo scrive su un unico rotolo di carta continua da teletrasmissione. «Per conto suo – ha spiegato uno dei principali sodali della beat generation, il poeta Allen Ginsberg – Kerouac, alla fine degli anni 40 e all’inizio dei 50, dal suo orecchio e dalla sua preoccupazione per i cambiamenti di ritmo che avevano luogo nella musica be- bop, aveva cominciato a scrivere lunghe frasi in prosa, simili al respiro dei negri e al ritmo negro nella musica bop esemplificata dalle cadenze della tromba “volo d’uccello” di Charlie Parker. Kerouac ha incominciato a imitare il jazzista molto consapevolmente».
Insomma, dopo aver rivestito anche di basi teoriche questa intuizione, comincia a sperimentare una scrittura tutta jazzata e sincopata. Meglio: quello che Cèline aveva fatto per lo swing e il jazz classico, Keroauc lo fa per il bebop. Tanto che, esplorando i lavori dei pittori astratti oltre che dei jazzisti, arriva a definire la tecnica dello sketching: per il giovane scrittore è l’atto stesso dello scrivere che scatena le emozioni e lascia scorrere in libertà i pensieri.
Non passa neanche un anno, siamo nel 1958, che Nanda Pivano – traduttrice, critica e intellettuale che era stata amica e compagna di classe di Cesare Pavese – farà tradurre e pubblicare il romanzo da Mondadori. E Kerouac arriverà nelle librerie italiane proprio mentre anche da noi si modificavano abbigliamento, linguaggi, gusti musicali, comportamenti nel mondo giovanile. Irrompeva il rock’n roll, iniziavano a incidere i loro primi dischi i cantautori, cominciavano ovunque a cambiare i punti di riferimento culturali, sociali e anche politici. Non a caso, Sulla strada sarà subito un successo e un cult. «Nei primi anni ’ 60 – ha raccontato di recente l’attore e regista teatrale Franco Branciaroli, intervistato da Antonio Gnoli per Repubblica – si parlava tantissimo di Kerouac. Decisi di leggere anch’io Sulla strada. Non a casa, ma in macchina. Con lo stereo che mandava musica. E io mi dicevo: leggi, leggi ’ sto Kerouac».
On the Road sarà la punta di un iceberg che, via via, insieme alle opere degli altri esponenti della beat generation – Ginsberg, Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti, William Burroughs, Gary Snyder, Ed Sanders, Peter Orlovsky – trasporterà idee e musica inedite: le ballate di Bob Dylan e Joan Baez, la musica di Leonard Cohen, le teorie sulla liberazione sessuale di Wilhelm Reich, la letteratura di Henry Miller, le filosofie orientali divulgate da Alan W. Watts, l’esoterismo di Gurdjeff, il Living Theatre, la passione per i Ching… Da noi, il conformismo italiano – in tutte le sue varianti egemoni, cattolico- conservatrice, togliattian- marxista e liberal- crociana – non potrà non fare muro contro questa sensibilità. È un clima dominante rievocato dalla stessa Nanda Pivano: «In quegli anni era molto chiara l’ostilità anche della sinistra italiana verso autori come Kerouac, Ginsberg, Ferlinghetti. Io sono stata licenziata dalla Mondadori, dove lavoravo come consulente, perché facevo pubblicare solo le opere dei miei amici, quegli autori beat sgraditi all’élite intellettuale di sinistra. Eugenio Montale era un esempio illustre degli italiani che detestavano quegli scrittori anticonformisti».
In Italia, insomma, il libertario Kerouac sarà sempre nel mirino di un certi ambienti intellettuali, giornalistici e accademici. Lo stesso critico Vito Amoruso lo taccerà di «egoismo individualistico e antisociale», di «borghesismo», di «fedeltà all’establishment». E ancora nel 1977, a dieci anni dalla contestazione, nell’Agenda rossa pubblicata da Savelli, la definizione di Kerouac è da manuale: «Pessimo scrittore, mediocre filosofo e politico qualunquista. I suoi personaggi sono i simboli del rifiuto del lavoro, dei valori costituiti, della rispettabilità.
Vagabondi eternamente sovraeccitati, rifiutano però, oltre il lavoro e la famiglia, anche l’impegno, l’intelligenza, la lotta».
Ai marxisti- leninisti di stretta osservanza, ai depositari del senso della rivoluzione e ai custodi dell’ideologia, quei libertari irrazionali e individualisti, sempre in cerca di una via personale alla spiritualità, non potevano che apparire urticanti. E forse non potevano proprio piacere quei ragazzi che – come li descriveva la Pivano nel 1958 nella prefazione a Sulla strada – erano «costretti a vivere in una società anonima nella quale non riescono a credere, e pertanto ritengono incapace di rispondere alle loro domande, spesso la sfuggono creandosi una società autonoma, e vivono in piccole bande più o meno segrete secondo un codice primordiale, basato sull’inviolabilità dell’amicizia».
Non piacevano quei ragazzi e quegli scrittori, come non piacevano i maestri che si erano scelti: un maledetto come Céline, un irregolare come John Fante, per non dire del principale ispiratore poetico e linuistico: Ezra Pound. Le conferme non mancano. Durante la campagna presidenziale statunitense del 1952 che vide la vittoria di Eisenhower, i beatnik arrivarono a scrivere «Ez for Pres» – ossia “Ezra Pound come presidente” – sulla cinta esterna del St. Elizabeth’s Hospital, il manicomio dove il grande poeta americano era recluso da sette anni per collusione col fascismo e dove rimarrà sino al suo ritorno in Italia nel ’ 58. Era sicuramente un debito di riconoscenza verso un maestro – talent scout, tra i tanti, di Eliot, Joyce e Hemingway – sempre caro alla beat generation, tanto che lo stesso Kerouac farà dire a Japhy, uno dei protagonisti dei Vagabondi del Dharma: «Pound era un buon diavolo, anzi il mio poeta preferito».
Nel 1967, cinquant’anni fa esatti, Allen Ginsberg – autore della celebre poesiascandalo Urlo che da noi ispirò anche
Dio è morto di Guccini – venne in Italia proprio per incontrare Pound, il quale, uscito, dal manicomio, viveva da qualche anno tra Rapallo e Venezia. È famosa la foto che ritrae il vecchio poeta assieme a Ginsberg e alla Pivano a Portofino il 23 settembre di quell’anno. Comunque, quando Ginsberg, poeta ebreo buddista, come amava definirsi, incontrò l’autore dei Cantos – il “miglior fabbro” del Novecento, per dirla con Eliot – in segno di omaggio non volle recitargli nessuna sua poesia. Piuttosto, dopo una amabile cena, arrotolò della marijuana in una cartina per sigarette, e senza una parola, iniziò a fumare. «Poi – riferisce il giornalista Mark Kurlansky – mise su per Pound dei dischi: Yellow Submarine e Eleanor Rigby dei Beatles, Sad- Eyed Lady of the Lowland, Absolutely Sweet Mary e Gates of Eden di Bob Dylan, e Sunshine Superman di Donovan. Ascoltandoli – rileva Kurlansky – Pound sorrideva, sembrava apprezzare in particolare certi versi». E con soddisfazione, conclude, batteva il tempo con il suo bastone dal manico d’avorio.
C’è anche questo nel profondo della cultura beat, insomma. Tanto è vero che quando il 5 aprile di vent’anni fa – ancora un anniversario in cui incorre in questo 2017 la beat generation – si spegneva a quasi settantun anni anche Ginsberg, nel gruppetto di amici che circondavano il suo capezzale c’era anche la cantautrice Patti Smith. La quale gli lesse, non a caso, alcuni versi scelti dai Cantos di Ezra Pound.