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«L’islam – che non è semplicemente religione, ma modo di vita, appartenenza a una storia e a una civiltà – rischia di costituire una gigantesca polveriera, formata da centinaia di milioni di uomini. Da ieri ogni Stato musulmano può essere rivoluzionato dall’interno, cominciando dalle sue tradizioni secolari».
È il 26 febbraio 1979 e Michel Foucault, il filosofo francese, manda il suo ultimo reportage dall’Iran – sono nove gli articoli che avrà inviato, per il Corriere della Sera e le Nouvel Observateur, dal settembre dell’anno prima, quando sono iniziate le rivolte contro lo scià Reza Pahlavi, il re dei re. E più che un reportage, questa sembra una terribile profezia.
Dell’Iran Foucault non si occuperà più, ma gli verrà rimproverato a lungo questo suo “appassionamento”, questo “orientalismo”, questo suo non rendersi conto, almeno apparentemente, che dietro quella sollevazione popolare andava tessendosi la tela di un potere religioso teocratico, dai connotati medievali. Eppure, in un articolo per Le Monde del maggio 1979 ( Inutile de se soulever? “Insorgere è inutile?”) scriveva: «Non vi è nulla di vergognoso nel cambiare opinione: ma non c’è nessuna ragione di dire che si cambia quando oggi si è contro le mani tagliate, dopo essere stati, ieri, contro le torture della Savak... Le sollevazioni appartengono alla storia. Ma, in qualche modo, le sfuggono. Il movimento per cui un uomo solo, un gruppo, una minoranza o un popolo intero dice: “Non ubbidisco più” e, di fronte a un potere che giudica ingiusto rischia la sua vita – questo movimento mi sembra irriducibile... Enigma della sollevazione. Per chi cercava in Iran, non le “ragioni profonde” del movimento, ma il modo in cui questo era vissuto, per chi tentava di comprendere che cosa passasse nella testa di quegli uomini e di quelle donne quando rischiavano la loro vita, un elemento era sorprendente. Essi inscrivevano la loro fame, le loro umiliazioni, il loro odio nei confronti del regime e la loro volontà di ribaltarlo ai confini del cielo e della terra, in una storia sognata che era sia religiosa sia politica. Si scontravano con i Pahlavi, in una partita in cui ognuno giocava con la vita e la morte, ma anche con sacrifici e promesse millenari. Cosicché, in realtà, le celebri manifestazioni che hanno avuto una parte tanto importante, potevano contemporaneamente rispondere alla minaccia dell’esercito ( fino a paralizzarlo, seguire il ritmo delle cerimonie religiose e, infine, rimandare a una drammaturgia senza tempo, in cui il potere è sempre maledetto... La spiritualità a cui si riferiscono coloro che stavano per morire non è paragonabile al governo cruento di un clero integralista. I religiosi iraniani vogliono legalizzare il loro regime attraverso i significati della sollevazione. Squalificando la sollevazione perché oggi c’è un governo di mullahs, ci comportiamo come loro. In entrambi i casi si ha “paura”. Paura di quello che è appena successo l’anno scorso in Iran e di cui il mondo non aveva dato esempi da molto tempo».
Era stato questo perciò lo “scandalo” della rivoluzione iraniana per Foucault, che a migliaia fossero stati pronti a immolarsi, a affrontare a mani nude l’esercito più potente del Medioriente, in nome non d’un ayatollah, d’un profeta, d’una religione, ma di una “spiritualità politica”, quella spiritualità politica che s’era irrimediabilmente perduta in occidente.
A settembre di quell’anno, anche Oriana Fallaci andò in Iran e a Qom, la città santa dove viveva Khomeyni, intervistò l’ayatollah, il Capo Supremo. Nel 1973 la Fallaci aveva intervistato lo Scià e gli aveva chiesto conto dei suoi misfatti, tanto che quello le chiese se per caso non fosse sulla lista nera.
Durante la Rivoluzione quell’intervista era diventata un libretto clandestino da agitare come un manifesto, e per questo Khomeyni ora la riceveva: «Mi esaminano: eppure il mio abbigliamento è in regola: più che a un essere umano assomiglio a un fagotto. Sui pantaloni neri e la camicetta nera indosso un mantello nero, il collo e i capelli sono ben nascosti da un foulard nero annodato al mento, e sopra tutto questo ho il chador. Nero, s’intende».
Ne venne fuori, per il Corriere della Sera, un reportage durissimo: «Il suo ritratto è ovunque, come una volta il ritratto dello Scià. Ti insegue nelle strade, nei negozi, negli alberghi, negli uffici, nei cortei, alla televisione, al bazaar: da qualsiasi parte tu cerchi riparo non sfuggi all’incubo di quel volto severo ed iroso, quei terribili occhi che vegliano ghiacci sull’osservanza di leggi copiate o ispirate da un libro di millequattrocento anni fa... Alle undici di sera la città tace, deserta, e non rimane aperto neanche un caffè; ballare è proibito, visto che per ballare bisogna più o meno abbracciarsi. È proibito anche nuotare, visto che per nuotare bisogna più o meno spogliarsi... Le libertà sessuali, inutile dirlo, sono crimini da punire col plotone di esecuzione: non passa giorno senza che la stampa dia la notizia di qualche adultera fucilata... Si fucilano anche gli omosessuali, le prostitute, i lenoni... Il suo nome è sulla bocca di tutti, ossessivamente, sia che venga pronunciato con amore sia che venga sibilato con odio... Eppure è troppo presto per dire che si tratta di una rivoluzione fallita, esplosa per sostituire un despota con un altro despota. Ed è addirittura azzardato concludere che non si tratta di una rivoluzione bensì di una involuzione, quindi tante creature son crepate per nulla, al tempo dello Scià era meglio. I grandi capovolgimenti conducono sempre ad eccessi, estremismi fanatici, interregni caotici: la Francia non ci dette forse il Terrore? E una rivoluzione è avvenuta: religiosa, non libertaria. Per questo non la riconosciamo, e ce ne inorridiamo. Per questo ne siamo delusi. Bisogna tentar di capire. Bisogna ascoltare chi risponde con le lacrime in gola che sì, al tempo dello Scià si poteva bere il vino e la birra e la vodka e lo whisky, però si torturavano gli arrestati con sevizie da Medioevo; si poteva ballare e nuotare in costume da bagno e lavarsi i capelli dal parrucchiere, però dagli elicotteri si gettavano i prigionieri politici nel lago Salato; non si fucilavano gli omosessuali, le prostitute, le adultere, però si massacrava la gente nelle piazze e si viveva solo per vendere il petrolio agli europei. Soprattutto bisogna prestare orecchio a chi ci ricorda che esistono realtà diverse dalle nostre, e vie diverse dalle nostre per correggere quelle realtà...».
L’intervista finì con un mezzo incidente. La Fallaci farà le sue scomode domande, parlerà di fascismo, dispotismo e dittatura e il Capo Supremo risponderà sempre, senza mai guardarla negli occhi, che tiene abbassati a fissarsi le dita, finché gli osserverà che non si può nuotare con il chador e Khomeyni le dirà: «Tutto questo non la riguarda. I nostri costumi non la riguardano. Se la veste islamica non le piace, non è obbligata a portarla. Perché la veste islamica è per le donne giovani e perbene». E allora, racconterà, «indignata, getterò via il chador e aprirò il mantello e sposterò il foulard chiedendogli se una donna che ha sempre vissuto senza quei cenci da medioevo gli sembra una vecchiaccia poco perbene. E lui mi avvolgerà in un lungo sguardo indagatore da cui mi sentirò spogliata».
L’intervista, e l’incidente, accrescerà il prestigio internazionale della Fallaci, ma siamo certo ancora lontani dagli ultimi suoi testi, dopo l’ 11 settembre, sempre per il Corriere, che verranno poi raccolti ne La rabbia e l’orgoglio, anche se forse proprio in quei giorni se ne possono ritrovare le radici.
Nel presentare il suo ultimo libro, La Rivoluzione, la Repubblica islamica, la guerra con l’Iraq, Antonello Sacchetti dice: «Khomeyni aveva bene in mente il suo programma rivoluzionario visto che aveva definito il “Governo islamico” in un libro scritto, anni prima. Erano gli altri rivoluzionari ad avere le idee confuse. Khomeyni, con grande scaltrezza, si guardò bene dal dichiarare, apertamente, quali fossero i suoi reali obiettivi, quale fosse l’idea di Stato che aveva in mente. Quindi si può parlare di successo per Khomeyni, perché alla fine è prevalsa la sua fazione, e si è realizzato il suo disegno politico.
Per lui la Repubblica islamica rappresentava un progetto, invece per una parte dei suoi alleati, la repubblica islamica era, soltanto, uno slogan indefinito dai contenuti incerti. Khomeyni vince perché riesce a intercettare l’unica volontà comune di tutti i rivoluzionari, cioè cacciare lo scià. In questo è il più intransigente, il più netto di tutti. Se all’inizio del 1978 si parla di riforme della Costituzione, e poi di una eventuale abdicazione di Mohammad Reza Pahlavi, è solo dall’estate in poi che si parla di cacciare lo scià, e poi – in un secondo momento – di istituire una “Repubblica islamica”.
Il repubblicanesimo in Iran non aveva una storia, una tradizione. È un concetto che la rivoluzione ingloba e promuove in tempi rapidissimi. L’islamizzazione della neonata repubblica avverrà molto velocemente, proprio perché il progetto di Khomeyni era strutturato e, perfettamente, in linea con la cultura tradizionale del Paese...».
E a proposito della lunga e sanguinosissima guerra Iran- Iraq l’ultima guerra convenzionale del XX secolo, l’ultima, cioè, a essere combattuta dagli eserciti di due Stati nazionali l’un contro l’altro armati, Sacchetti dice: «Senza la rivoluzione non ci sarebbe stata la guerra, perché Saddam Hussein non avrebbe mai attaccato l’Iran monarchico, e perché, senza la guerra, la rivoluzione avrebbe avuto, probabilmente, un corso diverso. Così come le rivoluzioni francese e russa, anche quella iraniana, una volta aggredita, si ricompatta.
È una storia drammatica, terribile ma, assolutamente imprescindibile, per capire la rivoluzione oltre che la storia attuale dell’Iran. La guerra è il mito fondante della rivoluzione: i murales delle città iraniane omaggiano, quasi sempre, i martiri della guerra non quelli della rivolta contro lo scià». Dal 1941 al 1979 a governare l’Iran era stato lo scià Reza Pahlevi, che aveva ereditato la carica dal padre, Reza I, costretto ad abdicare nel 1941 durante la Seconda Guerra Mondiale da inglesi e russi, per il timore che allineasse il suo paese, ricco di petrolio, alla Germania nazista. Alla fine della guerra il Regno Unito, che era stato la potenza dominante in Medioriente fino a quel momento, decise di disimpegnarsi.
Gli Stati Uniti avevano bisogno di un alleato in quell’area strategica e scelsero l’Iran dello scià. L’alleanza con gli Stati Uniti divenne fondamentale nel 1953, quando lo scià riprese il controllo del paese con un colpo di stato contro il nazionalista Mohammed Mossadegh, che, due giorni dopo essere diventato primo ministro nel 1951, aveva nazionalizzato la Anglo- Iranian Oil Company, la prima volta che una grande compagnia petrolifera veniva sfidata apertamente da un paese produttore di petrolio. Il Regno Unito ruppe le relazioni diplomatiche con l'Iran, e nel 1953, con l'insediamento di Eisenhower alla Casa Bianca, anche gli Stati Uniti decisero di agire. Nel febbraio 1953, americani e inglesi approfittarono della confusione in cui versava il paese per una serie di manifestazioni indette dal Tudeh ( il partito comunista iraniano), mentre lo scià abbandonava il paese, e il generale Zahedi ( appoggiato dagli stranieri) obbligava alla resa Mossadegh. Lo scià tornò nel suo regno.
L’Iran si affermava come stato produttore ed esportatore di petrolio: con i soldi guadagnati dalla vendita del greggio si compravano sempre più armi, principalmente dagli Stati Uniti, trasformando l’esercito iraniano nel più forte di tutto il Medioriente. Quello era l’Iran che garbava agli americani. Dal 1963 al 1979 lo scià promosse la “rivoluzione bianca”, un programma di modernizzazione, appoggiato dagli americani, presto accusato di essere una “occidentalizzazione” di facciata, soprattutto dai religiosi.
I sontuosi festeggiamenti per i 2500 anni della monarchia persiana nel 1971 erano costati alle casse dello Stato 250 milioni di dollari. Al crescente malcontento della popolazione, le cui condizioni di povertà si erano aggravate negli ultimi anni, il sovrano decise di rispondere con la forza. Negli anni Settanta la polizia segreta ( Savak) compì arresti in massa, migliaia di cittadini vennero torturati e molti, a migliaia, vennero uccisi. Nel 1975 lo scià dichiarò illegali tutti i partiti politici, dissolvendo di fatto ogni forma di opposizione legale e favorendo la nascita di movimenti clandestini di resistenza.
Tra le voci del clero che più si alzarono contro lo scià ci fu quella di Khomeyni – esiliato prima in Iraq a Najaf e poi a Parigi. Da Parigi, le sue infuocate invettive, diffuse in Iran con le audiocassette, divennero la scintilla che incendiava la prateria. Fu proprio una serie di attacchi da parte di giornali di regime contro Khomeyni che innescarono le prime manifestazioni. Il primo febbraio 1979, accolto da circa tre milioni di persone, quando lo scià se n’era già andato dal paese – morirà poco dopo al Cairo, per una grave malattia – Khomeyni rientrava in patria.
Dice Sacchetti: «Per quanto riguarda il futuro politico del Paese, mi viene soltanto da raccomandare grande prudenza nelle previsioni. La Repubblica islamica ha dimostrato in questi quarant’anni una resilienza, assolutamente, imprevedibile. La stessa è stata data per spacciata tante volte, invece, questo sistema ha superato molti ostacoli ed è sopravvissuto a un passaggio epocale come la fine della Guerra Fredda che, direttamente o indirettamente, ha ridisegnato la mappa del Medio Oriente».