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Gli dèi di Silicon Valley non cadranno a Ebbw Vale nel Galles, per quanto sarebbe umanamente giusto che accadesse dopo le rivelazioni di Carole Cadwalladr. Il suo discorso, pronunciato al TED di Vancouver, riportato da “Il Dubbio” integralmente (23.4.2019), è una denuncia in piena regola dell’utilizzo spregiudicato, ai limiti - e forse ben oltre - della sovversione, delle tecnologie comunicative. Il grado di pericolosità dei social network era noto da tempo e da tempo si è chiesto, da più parti, con sempre minore convinzione bisogna ammettere, che vengano tenuti in conto i danni alle persone, alle comunità, agli Stati che il loro impiego scriteriato può provocare. Nessuno tra quanti avrebbero potuto e dovuto intervenire si è dato pena di fare qualcosa. I colossi dei nuovi media non si fanno intimidire. Ma neppure la reporter Carole Cadwalladr. E così, pur consapevole dei rischi che correva, ha denunciato le distorsioni di Facebook che hanno convinto gli elettori della cittadina gallese Ebbw Vale a votare per la Brexit. Il dettagliato racconto è agghiacciante. Sembra uscito dalla testa di Orwell, ma non ha nulla di fantasioso. È la descrizione della contraffazione della realtà a fini politici. Cittadini ignari sono stati indotti nell’errore costruito ad arte. Al punto che la giornalista - senza temere le possibili conseguenze della sua accusa - ha detto esplicitamente: “La democrazia non è scontata. E non è inevitabile. E dobbiamo combattere, dobbiamo vincere e non possiamo permettere che queste aziende tecnologiche abbiano un tale potere senza controlli. Dipende da noi: voi, me, tutti noi. Noi siamo quelli che devono riprendere il controllo”.
Già, riprendere il controllo. Come se fosse facile. Eppure lo dobbiamo a noi stessi il dovere almeno di tentare di opporci a chi presume che attraverso l’onnipotenza tecnologica può appropriarsi delle vite degli altri, come faceva la Stasi nella Repubblica democratica tedesca ricorrendo a rozzi sistemi informativi e a raffinati strumenti di crudeltà, tortura compresa, sicché alla fine tutti spiavano tutti, nelle famiglie e perfino sotto le lenzuola, per non dire di quel che accadeva all’esterno di abitazioni “aperte” alla vista di un invisibile Grande Fratello.
Se la piazza mediatica oggi ha sopraffatto qualsiasi ambito in cui si possa liberamente esercitare lo spirito critico è in ragione della supremazia della tecnica non più al servizio dell’uomo, ma dominante tutte le facoltà umane in nome di una indefinita discrezionalità che ha reso l’umanità il piedistallo di un potere nuovo, inedito nella storia: il potere di chi costruisce macchine infernali manovrate da pochi. E assevera in tal modo la congiunzione diabolica del denaro e della tecnologia come estremo traguardo di una modernità nata all’insegna della “civiltà delle macchine” nel secolo XIX e trasformatasi nel campo degli orrori nei quali si esercitano seduzioni illiberali nel nome della libertà. Paradossale quanto si vuole, ma è quello che sta accadendo e ha le fattezze di un neo- totalitarismo.
Nell’intervista, accurata e ricca di spunti di riflessione, rilasciata a Carlo Fusi, il professor Umberto Galimberti, su queste pagine, con molta chiarezza e non celata preoccupazione, a proposito dell’invadenza della tecnologia e della “dipendenza” delle nostre esistenze dall’algoritmo (la cui essenza sfugge quasi a chiunque) ha detto che “Il problema e` che continuiamo a pensare - ed e` un errore tragico, frutto di pigrizia mentale - di avere la tecnica come strumento a nostra disposizione. Non e` vero, non e` assolutamente vero. La tecnica e` ormai diventata il soggetto del mondo e gli uomini si sono trasformati in apparati di questa tecnica. Il grande capovolgimento sta qui. L’aveva gia` annunciato Hegel declinando un teorema semplice ed elementare: quando un fenomeno cresce quantitativamente, in parallelo il contesto cambia qualitativamente. L’esempio e` facile. Se c’e` un terremoto di due gradi della scala Mercalli nessuno, a parte i sismografi, se ne accorge. Se tocca nove gradi di intensità, il paesaggio cambia radicalmente. E’ un argomento sfruttato successivamente anche da Marx in chiave economica. Il denaro e` un mezzo per soddisfare i bisogni e produrre i beni, ma se diventa la condizioni universa-le di entrambi, allora da mezzo diventa fine. Lo stesso capovolgimento e` avvenuto anche con la tecnica. Se la tecnica diventa il canone universale per realizzare qualsiasi scopo, non e` piu` uno strumento bensi` il primo e pervasivo scopo di esistenza”.
Sicché, riflettendo sull’uso della tecnica e nel suo più immediato utilizzo, quello della comunicazione, non si può non concordare con Martin Heidegger, probabilmente il più precoce ed efficace studioso del “disvelamento” della pandemia tecnologica, per il quale la tecnica ha fatto irruzione nella natura stravolgendone i connotati ed asservendo l’uomo a se stessa in un capovolgimento perfino teologico che l’ha fatta percepire come una “deità” che signoreggia su qualsiasi cosa. Le più grandi catastrofi contemporanee sono state prodotte dal dominio incontrollato - e a questo punto disperatamente incontrollabile - della tecnica. La nostra immagine, come il filosofo tedesco prevedeva, è appiattita su ciò che noi abbiamo creato: possiamo dire di trovarci di fronte all’eclissi dell’Essere.
E, dunque, perfino un fatto di cronaca, di minuscola portata solo all’apparenza, come quello della vicenda narrata da Carole Cadwalladr, è rivelatore di uno spasmo che ha contagiato tutta l’umanità. Imprevedibilmente se si considera come lo sviluppo del web è avvenuto al netto delle conseguenze che ha prodotto grazie all’avidità finanziaria e alla bramosia di potere di chi ne ha il controllo pressoché totale.
Quando nell’ottobre 1969, lo psicologo e scienziato informatico Joseph Licklider, professo-re al MIT di Boston, venne incaricato da un’agenzia del Dipartimento della Difesa di creare il primo collegamento telefonico da computer a computer fra l’Universita` della California di Los Angeles e lo Stanford Research Institute, probabilmente non era consapevole che da quella sperimentale impresa sarebbe nato Internet e, dunque, tutte le derivazioni che facevano prevedere il mirabolante universo interconnesso come espressione massima della libertà.
Forse ne ebbe la percezione quando, poco dopo, si aggiunsero alla connessione le universita` di Santa Barbara e dello Utah. Poi fu la volta di una societa` di ingegneristica acustica di Boston, convertita all’informatica applicata, che nel 1970 aveva implementato i primissimi protocolli di Arpanet, vale a dire il progetto un mondo in rete. Licklider comprese, evidentemente, il potenziale del sistema a cui si stava dedicando, ma, al pari di lui, neppure le piu` fervide e brillanti menti che operavano nel settore potevano prevedere che quarant’anni dopo sarebbero stati miliardi in tutto il mondo. Praticamente il Globo in rete.
Fu chiaro allo scienziato americano, come al Dipartimento della Difesa, che il progetto Arpanet si sarebbe presto trasformato da strumento per contrastare i piani di penetrazione informativa sovietica nel mondo occidentale a tecnologia di comunicazione globale senza mediazione: il piu` stupefacente, straordinario mezzo di conoscenza e di collegamento di idee, parole, passioni, emozioni possibile. Licklinder, ormai dimenticato, tutto poteva prevedere, tranne che con il dispiegamento delle potenzialita` di Internet, frutto della pervasività del Web, si sarebbe creato un sistema per la condivisione di informazione, il quale avrebbe modificato i comportamenti umani, l’accesso alle informazioni ed alla conoscenza, e soprattutto sarebbe stato il motore di nuove forme – assolutamente inedite – di “democrazia virtuale”, anticamera di quella partecipativa se soltanto ci si fosse applicati a modulare gli strumenti in senso civile, che piu` diretta non si sarebbe potuta compiere fino a creare le condizioni per rivoluzioni culturali nella fase di gestazione e politiche nelle conseguenze pratiche.
Il mondo è un posto peggiore. Con tutta evidenza. E non occorre un Howard Phillips Lovecraft per immaginare l’universo prossimo venturo che tuttavia rende più intellegibile il nostro destino. Nel suo “Il richiamo di Cthulhu”, forse il miglior libro che abbia scritto, leggiamo, non senza rabbrividire: “Viviamo su una placida isola d'ignoranza in mezzo a neri mari d'infinito e non era previsto che ce ne spingessimo troppo lontano. Le scienze, che finora hanno proseguito ognuna per la sua strada, non ci hanno arrecato troppo danno: ma la ricomposizione del quadro d'insieme ci aprirà, un giorno, visioni così terrificanti della realtà e del posto che noi occupiamo in essa, che o impazziremo per la rivelazione o fuggiremo dalla luce mortale nella pace e nella sicurezza di una nuova età oscura".