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Vi ricordate il blitz della polizia nel paese di Gradoli durante i drammatici giorni del sequestro Moro? I blindati della celere, gli elicotteri, le unità cinofile, le perquisizioni “casa per casa”, “cantina per cantina”, gli sguardi attoniti degli abitanti del piccolo centro della Tuscia? Immagini vivide, impresse nella memoria anche di chi scrive. Peccato che quel blitz tanto spettacolare quanto inutile non sia mai avvenuto e le forze dell’ordine non siano mai entrate a Gradoli per cercare il covo dove era prigioniero il presidente della Dc. Una fake news come si dice oggi. Tutta la vicenda, poi era circondata da un fitto mistero; il nome di Gradoli emerge nella famosa seduta spiritica del 2 aprile 1978 tenuta da alcuni professori universitari tra cui Romano Prodi. Una boutade se non fosse che in via Gradoli a Roma ci fosse stata effettivamente una base delle Br che venne poi scoperta fortuitamente a causa di un guasto idraulico nell’appartamento. «La comune convinzione che ci fu una perquisizione di massa nasce dalle immagini di un film di Giuseppe Ferrara sul rapimento Moro, apparso nel 1986, ben otto anni dopo i fatti. Fu proprio Ferrara a mettere in scena la perquisizione di fantasia i cui frames sono fissati nelle menti di molti, persino in quella del presidente della Commissione stragi che ribadì con forza questa sua convinzione: “Ne è stata data notizia su tutte le televisioni, serbo ancora un ricordo preciso, si vedevano gli uomini con il mitra che entravamo e perquisivano un intero paese”». A raccontare con dovizia di particolari questa vera e propria “illusione di memoria” che ci ha colpiti tutti è Paolo Persichetti, ex membro dell’Unione dei Comunisti Combattenti (Br-Ucc), oggi storico e ricercatore che ha anticipato al Dubbio alcuni capitoli del suo prossimo lavoro "La polizia della Storia", edito da Derive e Approdi. Un’opera complessa di ricostruzione degli eventi come probabilmente nessuno aveva fatto prima, che si scontra inevitabilmente con i miraggi della percezione che offuscano fatti lontani nel tempo, a volte avvolgendoli in una densa cortina di fumo, altre volte operando scambi, sostituzioni, inversioni. Lo storico rigoroso sa che i fatti non corrispondono alla memoria, e che attingere alle fonti seguendo una tesi da dimostrare a priori è uno degli errori più gravi che si possano commettere. Specialmente se la tesi è di natura politica. La narrazione complottista che da oltre quarant’anni avvelena i pozzi e accompagna il sequestro Moro (senza mai aver fornito una prova concreta), adombrando fantomatiche infiltrazioni e manipolazioni da parte di altrettanto fantomatici poteri occulti che avrebbero eterodiretto i brigatisti ha contribuito non poco a traviare la nostra memoria. Anche opere di scarso livello come i libri di Sergio Flamigni o pellicole fantasy come Piazza delle Cinque Lune di Renzo Martinelli (di cui Flamigni è stato consulente storico) pur nella loro inverosimiglianza hanno nutrito l’inconscio cospirazionista naqzionale. Che in Italia è una specie di disposizione permanente, un habitus per dirla con Pierre Bordieu. L’allucinazione collettiva del blitz della polizia nel paese di Gradoli è solo un esempio di quanto sia difficile mettere a fuoco gli eventi, anche per chi agisce in buona fede e non ha interessi diretti nella vicenda. Peccato che questi bias cognitivi tracimino nella letteratura ufficiale, nelle aule di giustizia e nelle Commissioni parlamentari facendo a loro modo la “Storia”. «Quando tra il 2014 e il 2015 ho iniziato il lavoro di ascolto delle fonti orali in parallelo alla raccolta dei documenti disponibili per la ricostruzione degli aspetti politici, logistici, e operativi del sequestro Moro ho scoperto che il memoriale Morucci e la ricostruzione effettuata in sede giudiziaria corrispondevano solo in parte a quanto realmente accaduto». Secondo Persichetti le stesse “verità giudiziarie” sottoscritte dai giudici che hanno redatto la sentenza del Moro quater sono piene di approssimazioni, di piccoli grandi errori. Ad esempio sempre secondo i giudici il primo trasbordo del prigioniero dalla Fiat 132 al furgone Fiat 850 sarebbe avvenuto in via Bitossi anziché piazza Madonna del Cenacolo, il che contrasta in modo flagrante con le testimonianze di tutti i membri del commando, da Valerio Morucci a Mario Moretti, a Prospero Gallinari. In realtà i brigatisti nella seconda parte della via di fuga utilizzano un altro mezzo ancora di cui non si sapeva l'esistenza: è la famosa Renault4 rossa dove poi verrà ritrovato il corpo di Moro in via Caetani che venne usata da due membri del commando che dovevano dare appoggio a un secondo trasbordo del prigioniero previsto nel quartiere di Valle Aurelia che alla fine non avvenne. Questa informazione è presente nelle carte del Moro quater ma inquirenti e giudici non l'hanno mai sfruttata probabilmente perché non hanno voluto dare credito al racconto della via di fuga fatto dai brigatisti. Se invece di sequestrare l'archivio di Persichetti per cercare reati alla cieca avessero riletto i documenti dei processi questi elementi sarebbero venuti alla luce. Si tratta di aspetti secondari del sequestro che non toglie o aggiunge granché al quadro d’insieme, ma la distorsione della memoria si annida anche nei dettagli apparentemente insignificanti, alimentata poi dal mormorio, quello senz’altro in malafede, delle dietrologie. «Nella nostra ricerca ci siamo dovuti misurare costantemente con questa insidia, chi si confronta con la memoria sa che questa può giocare pericolosi tranelli. Per il ricercatore a volte è meglio confrontarsi con testimoni che hanno vuoti di memoria piuttosto che doversi misurare con le illusioni del passato, ricordi distorti e reinvenzioni che stravolgono i fatti».