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Il sogno di un visionario può realizzarsi. Se ci sono altri, con lui e come lui, che ci credono, che vogliono andare oltre al loro destino, che pretendono di spezzare le catene, metaforiche e non solo, che lo trascinano nel fango, tutto è possibile.Il più grande sogno, film d'esordio di Michele Vannucci selezionato nella sezione Orizzonti in questa Venezia 73, racconta una storia di riscatto e una favola suburbana di disagio e rivoluzione sociale, ma è esso stesso un sogno realizzato grazie a tanti visionari. Come Giovanni Pompili, della Kino Produzioni, che ci ha creduto e lo ha portato a compimento, come Alessandro Borghi che ha regalato un'interpretazione tenera e muscolare al suo Boccione, come Mirko Frezza che di questa storia è protagonista nella vita e al cinema. Arte e vita qui si uniscono in un matrimonio difficile e (po) etico, nel romanzo di trasformazione di chi ha saputo trovare un altro mondo diverso e possibile, per sé e per il proprio quartiere.Ex galeotto, Mirko è un uomo che ha pagato caro i suoi errori e che ha saputo dare a quella società che lo ha tradito, fin dalla famiglia, tutto quello che la stessa gli aveva negato. La Rustica, quartiere della periferia romana, è l'arena in cui questo leone - anche fisicamente con quella zazzera straordinaria e quello sguardo fiero e ferino, ma anche dolcissimo - viene ferito, si rialza, ruggisce e diventa re di una foresta di cemento che conosce troppo spesso solo droga, crimine e disagio. Vannucci racconta la sua vicenda tenendolo con sé, non solo come Virgilio ma come protagonista assoluto. E viene ancora più rabbia, perché se il cinema avesse incontrato il talento naturale di Frezza prima che lo avesse fatto il crimine, ora avremmo un grande attore in più e una vita spezzata (e poi ricomposta) in meno. Eppure come cittadini il calvario di questo salvatore laico dobbiamo benedirlo, perché senza la sua esistenza "sbagliata" ora non ci sarebbe un Centro, alla Rustica, che aiuta 500 famiglie. Senza quella solidale disponibilità ad aiutare gli altri, ad ascoltarli nonostante la testardaggine - che bel personaggio quello di Ivana Lotito, brava a disegnare una giovane idealista e pragmatica, la più discreta di tre bellissime figure femminili -, a ribellarsi allo status quo, forgiata anche dalle ferite subite, noi non avremmo un eroe metropolitano come lui.E non avremmo neanche questo film, gentile e ruvido, capace di aprirti il cuore e di metterti di fronte alle contraddizioni di una città bastarda, incattivita, corrotta dalle mafie della burocrazia e del cemento. Vannucci sa tenere le redini della storia - al netto di qualche verbosità di troppo e di un'inclinazione inevitabile a un'empatia che doveva forse leggermente moderarsi - con solidità da bravo narratore e una regia fatta di personalità e umiltà. Sa, il giovanissimo cineasta, che deve tenersi in disparte, lasciare campo al carisma naturale di Mirko Frezza, farsi e farci trascinare dalla storia. Nessuno cerca il colpo di tacco, qui, ma tutti si mettono al servizio del campione di vita. Certe storie vanno raccontate, senza se e senza ma. E senza arzigogoli creativi. L'opera è una palestra di vita e di cinema, è la forza del sogno su quella del pragmatismo. Tutti a Frezza non credevano, forse all'inizio neanche lui pensava di farcela. E chissà quante volte, in quella troupe, si è avuto il terrore di non farcela. Perché progetti così non sono quelli che vengono cercati, nel nostro mercato, ma senza lungometraggi così saremmo più poveri, come cinefili e come cittadini. E ci vogliono tanti Frezza, per cambiare questa Roma sbagliata e questo cinema codardo. «E' vita 'sto film» ha detto Alessandro Borghi. E ha ragione da vendere. Non è uno da dichiarazioni scontate, questo attore dal talento educato e allo stesso tempo animale. E in quattro parole lo recensisce meglio di chiunque altro. E allora bravi Frezza, Vannucci, Borghi e Pompili. Bravi tutti, capaci di sognare nuotando nella merda.