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Al debutto di Repubblica nelle edicole, il 14 gennaio del 1976, Indro Montanelli ci esortò, al Giornale che in edicola ci stava già da più di un anno e mezzo, a non temerne la concorrenza. Eppure il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari aveva assunto il nome di una giovane testata portoghese socialista distintasi per anticomunismo. Che era anche la cifra, per quanto non proprio di sinistra, del giornale fatto nascere da Montanelli dopo essere uscito dal Corriere della Sera, diretto da Piero Ottone.
Le preoccupazioni più forti per la concorrenza che ci poteva fare Scalfari venivano da Enzo Bettiza, ma erano condivise anche da Cesare Zappulli, Gianfranco Piazzesi, Renzo Trionfera, Danilo Granchi e alcuni collaboratori esterni, fra i quali lo storico Rosario Romeo.
“Tranquilli, Scalfari non ci procurerà danni. Ne procurerà solo a Paese Sera e all’Unità, dove non a caso ha pescato di più per mettere su la sua redazione”, ci disse Montanelli. E così in effetti avvenne perché Repubblica, a dispetto del modello portoghese attribuitogli all’esordio, si rivolse ben presto ad un pubblico che già votava o era tentato di votare per il Pci guidato da Enrico Berlinguer. Cui Scalfari si rivolgeva con spirito per niente di antitesi, ma di dialogo, di incoraggiamento sulla strada evolutiva che quel partito aveva imboccato ma stentava a percorrere con la velocità da lui desiderata.
Il pur fulminante avvio del nuovo giornale, per quanti danni avesse subito apportato a Paese sera e all’Unità, come Montanelli aveva previsto, stentò poi a tenere botta nelle edicole con ricavi proporzionati alle sue spese. Gli diede una grossa mano involontariamente Aldo Moro, durante il cui sequestro, fra il 16 marzo e il 9 maggio del 1978, quando anche lo statista democristiano fu ucciso dalle brigate rosse, come la scorta 55 giorni prima, Repubblica guidò vistosamente la linea della fermezza, ancor meglio del governo monocolore dc di Giulio Andreotti sostenuto esternamente dai comunisti.
Ne fummo condizionati anche noi al Giornale, dove non ero il solo – vi assicuro - a chiedermi se valesse la pena lasciare uccidere Moro non tanto per difendere, come si diceva, la saldezza dello Stato, quanto per garantire la sopravvivenza di una maggioranza – quella di “solidarietà nazionale”- cui i comunisti non potevano comprensibilmente lasciare spazi di manovra in quella tragedia. Essi avrebbero perduto diversamente la credibilità di forza di governo, visto che i terroristi rossi appartenevano a quello che Rossana Rossanda, allora cinquantaquattrenne, aveva impietosamente definito “album di famiglia” sul Manifesto.
Ma non fu solo nella drammatica vicenda di Moro che al Giornale fummo condizionati dalla concorrenza e dalla cultura di Scalfari e della sua Repubblica. Ne ebbi una prova personale e clamorosa cinque anni dopo, nel 1983, quando abbandonai Montanelli per il rifiuto opposto alla pubblicazione di un editoriale che avevo scritto per difendere il segretario socialista Bettino Craxi dalle accuse di prepotenza e di lottizzazione. Che gli erano state rivolte da comunisti e sinistra democristiana per alcuni avvicendamenti ai vertici dell’Eni. La lottizzazione, come poi si sarebbe accertato anche col finanziamento irregolare della politica, non era – e non è tuttora - un fenomeno addebitabile a un solo partito e relativo leader.
Ebbene, quando discutemmo al telefono di quell’editoriale bloccato sulla sua scrivania, e forse anche già cestinato, Montanelli mi disse, fra l’altro: “ Franceschino, non possiamo lasciare a Scalfari l’esclusiva delle critiche per lottizzazione a Bettino”. Anche lui chiamava per nome Craxi, ma gli davano fastidio il carattere e un po’ anche la concorrenza elettorale che il segretario socialista faceva pure a quella Dc per la quale il direttore del Giornale da anni invitava i lettori a votare “turandosi il naso”, pur di non farla sorpassare dal Pci.
Successivamente alla nostra separazione professionale, quando dirigevo Il Giorno, non mi sorprese più di tanto vedere il mio ex Giornale appiattito sulla Procura di Milano, come Repubblica, in quel grande e demolitorio processo ai partiti di governo – ma solo ad essi - della cosiddetta prima Repubblica: quella vera, non di carta. Che infatti crollò impietosamente, con la collaborazione – debbo anche dire - delle vittime. Le quali, anziché difendersi collettivamente, come tentò di fare Craxi per conto di tutti in un discorso alla Camera che nessuno dei suoi avversari osò interrompere, si divisero fra loro, ed anche al proprio interno. Ciascuno cercò di salvarsi per proprio conto, ai danni magari del vicino di banco, nello stesso gruppo parlamentare. Più che una guerra, come piacque dipingerla a certi magistrati che si erano assunti il compito della rigenerazione o rifondazione della politica, fu una tonnara.
Il giustizialismo, preferito ad un garantismo scambiato sbrigativamente per complicità col malaffare, divenne una malattia infettiva, anche nel campo mediatico.
Repubblica lo cavalcò con astuzia ed efficacia superiori ad ogni altro giornale, dandogli con l’autorevolezza dei suoi collaboratori esterni quasi una dignità etica e culturale, elevandolo dall’opportunismo politico dei partiti che lo usavano per liberarsi degli avversari. E lo fece con una potenza di fuoco enorme, che portò il quotidiano di Scalfari in testa alle graduatorie nelle edicole, senza alcuna discontinuità tra l’epilogo della prima Repubblica, sempre quella vera e non di carta, e tutto l’accidentato corso della seconda.
Ci fu una sola, vistosa eccezione, che io ricordi bene. Essa risale al 2012, quando Scalfari, ormai soltanto fondatore ma pur sempre anima del suo giornale, spiazzando mezza redazione, forse anche il direttore Ezio Mauro, e un bel nugolo di autorevoli collaboratori, a cominciare dal presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky, prese le difese dell’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano in uno scontro durissimo con la Procura di Palermo.
Gli inquirenti siciliani avevano intercettato “incidentalmente” il capo dello Stato al telefono con l’indagato Nicola Mancino, già ministro democristiano dell’Interno, presidente del Senato e suo vice al Consiglio Superiore della Magistratura. Essi si ostinarono a conservarne le registrazioni, anziché distruggerle, come reclamavano al Quirinale. Dove si facevano giustamente forti anche del fatto che gli stessi magistrati d’accusa avevano definito quelle intercettazioni ininfluenti ai fini delle indagini e del relativo processo - tuttora incredibilmente in corso - sulle presunte trattative fra lo Stato e la mafia nella stagione delle stragi del 1992- 93.
Ebbene, è stato proprio il giustizialismo, a mio modesto avviso, ad avvelenare anche i pozzi di Repubblica, sino a determinare il rovinoso scontro consumatosi fra Carlo De Benedetti e il suo ormai ex giornale, ma anche fra Carlo De Benedetti e i figli ai quali egli ne ha ceduto la proprietà, a cominciare naturalmente da Marco, che presiede la società editrice. Il quale ha rilasciato una lunga intervista a Repubblica per difenderla dalle critiche del padre ed esprimere tutto il suo comprensibile imbarazzo, pur evitando di addentrarsi nella ricerca delle ragioni dell’accaduto, o prendendosela solo col forte temperamento del genitore. Cui egli ha tuttavia assicurato che ne corrisponde un altro altrettanto forte, che è naturalmente il suo. Il che penso abbia rasserenato a tal punto Scalfari da avergli fatto riprendere, sia pure di lunedì, anziché di domenica questa volta, il suo abituale e impegnativo appuntamento con i lettori.
Lo stesso Scalfari, in una intervista anche da lui rilasciata a Repubblica per difendersi da un’imbarazzante aggressione verbale dell’ex amico e sodale consumatasi in sua assenza nel salotto televisivo di Lilli Gruber, ha espresso la sensazione che possano avere contribuito a condizionare gli umori di Carlo De Benedetti le polemiche appena riesplose contro i pur modesti, relativamente, guadagni di 600 mila euro realizzati tre anni fa acquistando titoli delle banche popolari. Di cui l’editore aveva appena saputo l’imminente riforma dall’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi dopo una colazione a Palazzo Chigi, nel frettoloso saluto di commiato sulla porta dell’ascensore, presente quindi il commesso di turno.
La consistenza relativa – ripeto di quei guadagni in borsa, dove De Benedetti movimentava centinaia di milioni di euro, e gli accertamenti eseguiti dopo la trasmissione della pratica dalla Consob hanno indotto più di un anno e mezzo fa la Procura di Roma a chiedere al giudice competente, e tuttora silente, l’archiviazione del fascicolo, peraltro ridotto a carico soltanto dell’operatore incaricato dell’investimento dal finanziere.
Carlo De Benedetti si aspettava – secondo me giustamente - una difesa da parte di Repubblica.
Che invece ha voluto prendere le distanze con un breve editoriale dettato dall’esigenza, dichiarata, di non esporre il giornale al sospetto o all’accusa dei lettori di “conflitto d’interessi”. E il presidente ora soltanto onorario della società editrice - pur avendo già liquidato con poche battute la faccenda dei 600 mila euro e parlando più in generale di Repubblica e di una sua presunta perdita d’identità nel già citato salotto ospitale di Lilli Gruber - si è doluto del mancato “coraggio” del giornale ora diretto da Mario Calabresi. Che egli ha un po’ paragonato al don Abbondio dei celebri Promessi Sposi manzoniani.